L’impianto era caduto il 7 agosto nelle mani dei jihadisti dell’Isis. In appoggio alla controffensiva curda, caccia e droni americani hanno condotto oggi 14 nuovi raid contro le postazioni dei miliziani dello Stato islamico, che si sono aggiunti ai nove lanciati ieri. Gli attacchi, sottolinea il Pentagono, hanno danneggiato o distrutto dieci vettori blindati, sette Humvees, due veicoli armati e un checkpoint dell’Isis.
Secondo la tv panaraba Al Jazeera i Peshmerga hanno riconquistato anche tre cittadine cadute solo la settimana scorsa nelle mani dello Stato Islamico. Si tratta di Tel Skuf, Ashrafia e Batnaya.
Il Pentagono ha ribadito che i raid americani mirano a proteggere il personale Usa nella regione autonoma del Kurdistan e a sostenere gli sforzi per gli aiuti umanitari alle centinaia di migliaia di profughi che vi si sono riversati davanti all’avanzata jihadista, molti cristiani o appartenenti alla minoranza degli Yazidi.
Gli Stati Uniti stanno inviando anche armi sofisticate ai curdi, come la Francia e probabilmente in un prossimo futuro anche altri Paesi della Ue, dopo il via libera dato venerdì in una riunione straordinaria dai ministri degli Esteri dell’Unione. Ma il ministro degli Esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier, tornato da una missione compiuta a Baghdad e nel Kurdistan, mette in guardia dal pericolo che la situazione di crisi e la debolezza delle forze armate federali irachene possano portare alla creazione di uno Stato curdo indipendente che, a suo avviso, “destabilizzerebbe ancora di più la regione”. Tuttavia, il viceministro degli Esteri italiano Lapo Pistelli ha sottolineato “il diritto di autodifesa di un popolo di fronte ad una invasione jihadista. Se non agiamo tutti tra un mese ci troveremo a parlare di una nuova Srebrenica”.
LA SITUAZIONE DEI PROFUGHI – Nel campo di Zaho, i profughi sono almeno 110mila, in gran parte yazidi. Dal confine che scorre lungo il fiume, dopo giorni di marcia arrivano anziani con il volto ustionato dal sole, bambini stremati e uomini senza più un lavoro.
Non tutti trovano posto sotto le tende dell’Unicef. Un palazzo in costruzione alle porte di Duhok ospita una decina di famiglie provenienti dal Sinjar. Sufyan, ex poliziotto, si sforza di essere ordinato, con la camicia pulita: spiega che non sa da dove ricominciare, ora che ha dovuto abbandonare il suo paese. Ci accoglie tra le scale e i piani di cemento che vengono trasformati lentamente in un rifugio, con i materassi per terra, le cisterne d’acqua, e i fornellini a gas. Al piano terra, due ragazzi costruiscono una latrina con lastre di legno, quattro pali, e i chiodi da carpentiere recuperati nel cantiere.
Per rispondere all’emergenza, l’Unicef ha trasferito una base operativa a Duhok. Oltre alle tende, al cibo e ai kit di reidratazione, si lavora per fornire – attraverso il governo curdo – delle piccole somme di denaro con cui le famiglie possano provvedere da sole ai primi bisogni elementari. Il campo viene ampliato di giorno in giorno: le ruspe smuovono il terreno per fare posto a nuovi piazzali e altre tende. Poco lontano, su un campo alle pendici delle colline, una tenda da nomadi e un bambino che improvvisamente crolla al suolo, sfinito e disidratato. Lo soccorrono subito alcuni uomini: un sorso d’acqua, la possibilità di rinfrescarlo per quel che possono.
Davanti a tutto questo e alla possibilità che il califfato islamico non abbandoni presto le terre che ha conquistato, molti, moltissimi yazidi temono che per loro ormai vivere in Iraq sarà impossibile. Non resta che emigrare. (Redazione Papaboys – Fonti italiane: Rai News 24 – Tg Com – Sito in arabo dell’Iraq: Jhyy)
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