Una statua di Maria con la testa mozzata, un dipinto di Cristo gettato a terra e pestato, immagini sacre usate per il tiro a bersaglio. E poi cimiteri profanati, tombe e lapidi divelte, santuari, monasteri, chiese, case e negozi messi a ferro e fuoco. È un campionario di nefandezze e di orrori quello che si sono lasciati dietro i terroristi dello Stato Islamico (Isis) subito dopo la loro cacciata dalla Piana di Ninive.
Per la prima volta dalla loro liberazione, un gruppo di giornalisti, componenti una delegazione di Aiuto alla Chiesa che soffre, si recata nei villaggi cristiani oggi ancora disabitati della Piana per documentare la distruzione e la persecuzione subite durante i due anni e mezzo di occupazione di Daesh
Una statua di Maria con la testa mozzata, un dipinto di Cristo gettato a terra e pestato, immagine sacre usate per il tiro a bersaglio. E poi cimiteri profanati, tombe e lapidi divelte, santuari, monasteri, chiese, case e negozi messi a ferro e fuoco. È un campionario di nefandezze e di orrori quello che si sono lasciati dietro i terroristi dello Stato Islamico (Isis) subito dopo la loro cacciata dalla Piana di Ninive, cuore pulsante della cristianità irachena, rappresentato dai villaggi di Bartella, Batnaya, Qaramles, Qaraqosh, Telleskoff.
A visitarli è stata nei giorni scorsi una delegazione di Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs), guidata dal suo direttore Alessandro Monteduro, accompagnato per l’occasione dal vescovo di Carpi, monsignor Francesco Cavina, alla sua
terza visita di solidarietà in Kurdistan. Dopo aver occupato, nel giugno 2014, la vicina Mosul, i miliziani del Califfo al Baghdadi erano piombati su questi villaggi il successivo 6 agosto, nel buio della notte. Una notte nera come la loro bandiera. Due anni mezzo di occupazione che fanno rima con persecuzione, subita dai cristiani di questa area del nord Iraq, costretti in oltre 130 mila, a fuggire in fretta e furia a Erbil, capitale del Kurdistan, per salvarsi la vita e la loro fede. Le alternative, infatti, erano pagare la tassa di protezione oppure convertirsi all’Islam. Il 17 ottobre 2016 ha preso avvio l’offensiva dell’esercito di Baghdad e dei Peshmerga curdi per liberare i villaggi e puntare a Mosul, capitale irachena del Califfato, dove si combatte per fiaccare le ultime sacche di resistenza dell’Isis.
Oggi questi villaggi sono stati tutti liberati ma le comunità che li abitavano non sono ancora tornate. Anche perché, secondo una ricerca condotta il mese scorso da Acs tra 1500 famiglie sfollate cristiane a Erbil, emerge che il 56,96% di queste ha subito il saccheggio, da parte dell’Isis, delle loro abitazioni, il 22,25% le ha viste distrutte, il 19,42% incendiate. L’1,38% non sa che fine abbiano fatto”. In più, come dichiarato da monsignor Bashar Matti Warda, arcivescovo caldeo di Erbil, “il 90% dei luoghi culto della Piana di Ninive è stato distrutto e saccheggiato dallo Stato islamico”.
Calvario iracheno. Arrivare oggi nella Piana di Ninive non è facile. Partendo da Erbil si devono superare una serie di check point, prima dei Peshmerga e poi dell’esercito iracheno. Le strade sono dissestate, a tratti interrotte da enormi fossati e trincee, scavate ad hoc per tenere lontane le micidiali auto bomba usate come arma letale dai miliziani di al Baghdadi. Si va verso Mosul ma non si vedono altri mezzi militari in strada che non siano quelli fermi ai check point. Il fronte di guerra, infatti, si è spostato in avanti e l’esercito iracheno è ormai a tre km dal centro della seconda città irachena. Man mano che ci si avvicina ai primi villaggi della Piana si notano strade vuote, negozi chiusi e saccheggiati, case fortemente danneggiate, chiese distrutte. Come quella siro-ortodossa dedicata a Santa Shemoni a Bartella, il cui attiguo cimitero è stato profanato. Nelle tombe scoperchiate si intravedono dei missili a fianco alle bare mezze aperte da cui escono resti umani.
Tutto intorno, granate a mano, bossoli di kalashnikov e ordigni di vario tipo. Nel cortile interno troneggia quel che resta di una statua di un patriarca siro-ortodosso il cui volto è stato scalpellato e le mani mozzate. Una scena che si ritrova anche in altre chiese della Piana. A Qaramles il volto in rilievo di santa Rita da Cascia è stato cancellato a colpi di martello. Una furia iconoclasta che si è scatenata anche nella vicina chiesa cattolica di san Giorgio, che è stata incendiata e di cui non resta praticamente nulla. Si cammina sulle macerie, sui vetri, e sui resti di arredi sacri nella chiesa siro-cattolica dell’Immacolata Concezione a Qaraqosh. Davanti a ciò che resta del tabernacolo, completamente inondato di scritte inneggianti all’Isis, su un altare improvvisato mons. Cavina ha celebrato una messa, la prima di un vescovo italiano nella Piana di Ninive.
Un segno di vicinanza materiale e spirituale apprezzato dai sacerdoti locali che hanno guidato la delegazione Acs in questo viaggio nel Calvario della comunità irachena. Forti le parole di mons. Cavina:
“i cristiani di qui sono persone di speranza che non si rassegnano”.
No si rassegna il sacerdote rogazionista Jalal Yako che, nonostante la sofferenza nel vedere “la chiesa distrutta da tanta cattiveria – afferma – ho scelto di tornare perché questa è la mia città, questa è la mia terra”. È anche la terra di Gazel, una donna di 82 anni, morta a Erbil dove era fuggita con l’arrivo di Daesh. I suoi parenti l’hanno riportata a Qaramles, come da lei desiderato, tumulandola nel piccolo cimitero del villaggio profanato. Alcuni di loro tornava nel villaggio per la prima volta dalla liberazione.
Terra di martiri. Una terra che ha già conosciuto il sangue dei martiri, come l’arcivescovo di Mosul, Mar Paulos Faraj Rahho rapito e ritrovato morto tra febbraio e marzo del 2008, e padre Ragheed Ganni, ancora a Mosul, ucciso l’anno prima insieme a tre suddiaconi. Proprio sulla tomba di quest’ultimo, nella chiesa caldea di Mar Addai a Qaramles, a pochi chilometri da Mosul, la delegazione di Acs si fermata a pregare. La sua lapide è stata divelta e fatta a pezzi. È un martirio continuo.
Nella navata non restano che pochi arredi sfuggiti alla furia di Daesh. Padre Paulos (Thabet) Mekku, originario di Mosul, traduce alcune scritte dell’Isis lasciate sui muri della chiesa. Una dice: “Se Dio vorrà presto invaderemo Roma!”. Un’altra recita: “Allah distruggi gli ebrei, i cristiani e gli sciiti”. “Una propaganda inutile” per il prete caldeo che liquida, con un sorriso amaro, i due murales affidandone la risposta ad un lungo suono di campane come da mesi non si sentiva in tutta questa zona disabitata. Anche con i tocchi delle campane si combatte Daesh. Si arriva a Batnaya, il villaggio che ha subito più danni di tutti e infine a Telleskof dove nelle ultime settimane sono tornate 170 famiglie. Altre 600 sono in procinto di farlo, ma prima bisogna ricostruire case, chiese e infrastrutture. E la Chiesa locale è in prima linea, mentre le Istituzioni sono assenti.È il primo villaggio cristiano che rinasce, come testimonia la grande croce eretta alla fine di febbraio, al grido di “Vittoria! Vittoria!” e benedetta dal patriarca caldeo di Baghdad, Mar Louis Sako. Le sue parole suonano come un monito per ogni altro invasore:
“questa Croce dice al mondo che questa è la nostra terra. Qui siamo nati e qui moriremo”.
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