Non c’è che dire. Proprio un successone questa guerra in Iraq. Oltre dieci anni di conflitto, migliaia di vite stroncate (per interessi alquanto dubbi), milioni di euro e di dollari buttati alle ortiche. E il risultato? Gli estremisti islamici continuano a guadagnare terreno, mentre le principali città del Paese cadono una dietro l’altra. Adesso, l’Isis (Stato Islamico dell’Iraq e del Levante) è alle porte di Baghdad. Le città di Rawa e Aneh sono considerate perse e gli islamisti hanno già costruito diversi corridoi per armi e rifornimenti tra la Siria e l’Iraq. Tutto sembra essere pronto per sferrare l’attacco decisivo alla capitale. Ma gli abitanti della prima città irachena non rimangono a guardare. Le truppe sciite, fedeli a Moqtada Al Sadr, uno dei più influenti leader politico-religiosi del Paese, sono pronte alla resistenza armata contro l’assalto jihadista. Insomma, i carri armati sono pronti. La guerra civile è praticamente alle porte. Il popolo sta raccogliendo l’invito delle autorità civili e religiose sciite a prendere le armi per proteggere la capitale in vista dell’arrivo degli insorti sunniti dell’Isis, gruppo terrorista, il cui obiettivo è quello di creare un vasto emirato unficato, dalla Siria all’Iraq: “Siamo pronti ad andare a combattere in qualunque provincia, e anche qui a Baghdad. – dice un abitante della capitale – Siamo pronti, anche i sunniti, insieme agli sciiti, ai curdi e ai cristiani”. Col propagarsi del conflitto aumenta anche il numero degli sfollati che sono ormai almeno 300mila, e che vanno ad aggiungersi al mezzo milione di rifugiati che già contava il paese, secondo i dati delle Nazioni unite.
Fra i profughi c‘è anche chi ha un brutto ricordo dell’Isis. Una donna racconta: “La mia casa è stata bombardata dall’alto e dall’Isis da terra. È andata distrutta. Ho perso tutto, tutti i miei averi”.
E un uomo anziano aggiunge:
“Non penso che potremo tornare al nostro villaggio, l’Iraq è finito. Dio abbia pietà di noi – e rivolto alla moglie dice: non piangere…”. Il malcontento dei sunniti nei confronti della maggioranza sciita ha originato delle unioni inimmaginabili fino a qualche tempo addietro, come quella che vede ormai gli estremisti fondamentalisti islamici dell’Isis allearsi ormai di fatto con quel che resta in Iraq del partito Baath, formazione laica che fu di Saddam Hussein. La figlia dell’ex rais catturato alla fine della Seconda guerra del Golfo e condannato a morte nel 2006,ha salutato l’avanzata del gruppo terrorista.
In tutto questo l’Occidente cosa fa? Naturalmente poco o nulla. Gli americani forse stanno cercando una soluzione. Ma si trovano un una situazione di assoluta scomodità. Da un lato sostengono i fondamentalisti (travestiti da ribelli in Siria per rovesciare Hassad), dall’altra vogliono eliminare l’ISIS che ha preso il sopravvento in Iraq, stravolgendo il delicato equilibrio a cui a poco a poco il paese sembrava orientarsi. Non hanno fatto in tempo ad uscire dall’Iraq che già gli si ripropone una nuova questione “umanitaria” da affrontare. E gli Usa, si sa, sono molto sensibili sul tema “umanitario” (quando soprattutto sono in pericolo gli interessi nazionali). D’altronde è per questo che è esplosa l’ultima Guerra del Golfo.
Per giustificare gli interventi armati dicevano: Democrazia e “Weapons of Mass Destruction”, le famose armi di distruzione di massa (mai trovate). Ma adesso l’amministrazione Obama tentenna. Interveniamo, non interveniamo. Inviamo qualche centinaio di uomini dei reparti scelti, ma solo per proteggere la nostra ambasciata. Alla fine una soluzione indolore sembra essere quella dei droni. Un metodo comodo per far fuori qualche terrorista senza, però, la seccatura di dover seppellire bare avvolte nella bandiera a stelle e strisce. Il che non sarebbe certo una gran pubblicità. Specie per un Premio Nobel per la Pace, (che lo scorso anno stava per scatenare sempre in nome della democrazia la guerra totale in Siria). Insomma, sembra che la “nuova” moda degli Stati Uniti sia appiccare incendi, intervenire per sedarli e, una volta estinto il grosso delle fiamme, lasciare le braci accese. In questo caso, fare paragoni con la situazione libica non è per niente sbagliato.
Mentre l’Europa e gli Stati Uniti sembrano far finta di niente, le autorità africane, invece, sembrano avere chiaro il quadro della situazione. Gli attacchi dei fondamentalisti non sono sporadici o casuali, ma fanno parte di una ben precisa strategia. Una linea comune che unisce i gruppi armati dalla Nigeria all’Afghanistan. In effetti, basta fare due più due per capire che c’è qualcosa che non va. A partire proprio dalla Nigeria, salita alla ribalta della scena mediatica per il rapimento di oltre 300 studentesse compiuto dai sanguinari miliziani di Boko Haram e degli ultimi 90 ragazzi scomparsi negli ultimi giorni. Si passa, poi, in Mali, dove i francesi stanno ancora combattendo una logorante guerra contro i mujaheddin nascosti tra le dune del Sahara. Non che a Parigi interessi molto della “missione umanitaria”.
In realtà, l’interesse dei nostri cugini d’oltralpe si riversa sul vicino Niger, ricco di risorse (uranio in particolare). In pochi, infatti, parlano delle varie Pmc francesi (Private Military Companies) che si stanno inserendo nel mondo della protezione delle miniere ancora, formalmente, sotto il controllo di Niamey. Ma andiamo oltre. Risalendo il Maghreb troviamo paesi come Algeria, Tunisia, Egitto e naturalmente Libia, che tentano di difendersi dalla destabilizzazione messa in atto dagli integralisti islamici.
Situazione diversa, invece, per quanto riguarda il Sudan e il Sud Sudan. La stampa europea sembra si sia già dimenticata del dramma umanitario che si sta consumando nei territori di Juba. Qui, infatti, si sta combattendo a fasi alterne una spaventosa guerra etnica tra Nuer e Dinka. Gli islamisti, a quanto pare, vorrebbero intromettersi per strumentalizzare le parti, ma le divisioni etniche sembrano essere più forti di quelle religiose. Situazione completamente diversa, invece, un po’ più a sud. Qui gli estremisti sanguinari di Al Shabaab sembra che abbiano un vero e proprio impero. Partendo dalla Somalia, dove hanno mosso i primi passi (e dove stanno riprendendo le attività), i jihadisti hanno dichiarato guerra al vicino Gibuti e al Kenya. Non è un caso che nell’ultimo mese entrambi questi paesi siano stati oggetto di attacchi terroristici. Durante l’ultima incursione, avvenuta proprio in Kenya, sono morte ben 48 persone. I killer hanno fatto irruzione, armi in pugno, in due alberghi, una banca ed un commissariato a Mpeketoni. Tra tutte le fazioni integraliste islamiche, forse Al Shabaab è quella che dovrebbe preoccupare di più noi europei. Bisogna tener conto del fatto che, se i terroristi hanno lanciato il loro attacco globale, anche (e soprattutto) il Vecchio Continente dovrebbe stare in guardia. D’altronde siamo uno dei loro obiettivi primari da sempre, come testimonia la ferita ancora fresca della strage alla Sinagoga di Bruxelles e a Parigi. Guardacaso, l’assassino è un ex miliziano appena tornato dalla Siria, dove combatteva per uno dei tanti groppuscoli sunno-salafiti. Insomma, i segnali che l’Europa sia nell’occhio del ciclone sono tanti. Ma come possono colpirci? Semplice, innanzitutto sfruttando i flussi migratori.
Secondo le autorità di alcuni paesi dell’Africa sahariana e sub-sahariana, i terroristi stanno inviando nel nostro continente delle cosiddette “cellule dormienti”. Si tratta di una tattica già utilizzata in passato dall’Unione Sovietica. Persone apparentemente normali, con regolare lavoro, magari sposati e con figli, che in realtà altro non sono che agenti ben addestrati nel compiere atti di spionaggio e sabotaggio. Tutto ciò avveniva all’epoca della Guerra Fredda e a quanto pare avviene anche nell’epoca della Guerra al Terrore. Naturalmente, è inutile anche aggiungere che l’immigrazione sia diventato ormai un business per i terroristi. Due piccioni con una fava. Da un lato c’è un guadagno sicuro con il traffico di esseri umani verso le nostre sponde, dall’altro c’è la possibilità di infiltrare uomini pronti a tutto in nome di Allah.
Ma più che l’attacco globale sferrato dai fondamentalisti islamici, quello che dovrebbe seriamente preoccuparci è quello che sembra essere il totale disinteresse dei nostri servizi di intelligence. Ammesso che siano a conoscenza di questa strategia offensiva. E a giudicare dal quantitativo di clandestini che ogni giorno si riversano sulle coste italiane, per poi diffondersi in tutta Europa, non sembra che sia in atto una particolare manovra difensiva. Ma niente panico. A quanto pare non siamo i soli. Sempre secondo alcune autorità africane, neanche i servizi francesi e inglesi sembra si stiano dando un gran da fare per contrastare la strategia degli islamisti. Parigi, infatti, è ancora troppo impegnata nel tenere sotto controllo il Mali, perchè non diventi l’ennesimo focolaio al pari della Libia o dell’Iraq. Ma questo di certo non è una giustificazione. Anche perchè se guardiamo i dati, le più potenti e pericolose “basi” dell’integralismo islamico europeo si trovano in Svezia, Regno Unito, Belgio e Francia. Quindi, come al solito, la colpa è nostra, che aspettiamo l’arrivo dei terroristi per poi individuarli quando sono già sul “campo di battaglia”, anzichè andare a cercarli alla fonte. Chissà che anche questa volta l’Europa non chiuderà le stalle una volta che i buoi siano scappati. a cura di Francis Marrash*
*La fonte dell’articolo è tratta da: lultimaribattuta