Sarebbero oltre 12mila, di 81 nazionalità, i combattenti stranieri che si sono recati in Siria negli ultimi tre anni, praticamente dall’inizio del conflitto. Di questi circa 3mila provengono anche da Francia (700), Gran Bretagna (400), Germania (270), Bosnia Erzegovina (150) e Kosovo (200). Militanti che si sono uniti alla lotta per rovesciare il presidente siriano Bashar al Assad e che in una seconda fase hanno abbracciato la causa di organizzazioni terroristiche come l’Is (Stato islamico). Jihadisti disposti al martirio in nome dell’Islam e dell’odio contro l’Occidente. Dai dati del rapporto “Foreign Fighters in Syria” (combattenti stranieri in Siria), diffuso nel giugno scorso dal centro di ricerca americano “Soufan Group”, che fornisce servizi di intelligence e di sicurezza a Governi e multinazionali, appare chiaro come la guerra siriana si stia confermando come un ‘hub’, uno scalo centrale, della jihad regionale ed ora, con la proclamazione del califfato, anche internazionale. Numeri importanti che stanno spingendo i governi occidentali ad alzare il livello di allerta e rivedere le proprie misure di sicurezza in modo da contrastare il reclutamento jihadista e limitare al minimo i rischi di un attacco terroristico sui rispettivi suoli. Le fonti di intelligence dei vari Paesi stimano che siano oltre venti le cellule terroristiche, attive nel reclutamento e addestramento, solamente nella regione balcanica.
Si inseriscono in questa azione di contrasto le recenti operazioni contro reti jihadiste in Bosnia Erzegovina e Kosovo, paesi balcanici a maggioranza islamica, ritenuti nevralgici per l’indottrinamento e la propaganda fondamentalista, come conferma anche un rapporto della Cia relativo a questa prima parte del mese di settembre. Secondo l’agenzia di spionaggio degli Stati Uniti d’America Bosnia, Kosovo e anche l’Albania sarebbero i principali centri di reclutamento di radicalisti islamici per la guerra in Siria e Iraq. Vere e proprie fucine del terrore a Sarajevo, Zenica, Maglaj, Srebrenika, Buzim – in particolare nei villaggi di Gornja Maoca e Bocinja noti per le locali comunità di wahabiti – sono state sgominate all’inizio di settembre dalla polizia bosniaca che ha arrestato 16 persone, nell’ambito dell’operazione “Damasco”. Tra i fermati anche Bilal Bosnic che aveva parlato di una strategia islamica di conquista del Vaticano. Oltre 40 arresti in 60 località si sono avuti anche in Kosovo dove è stato fermato Gjilan, Zekirja Qazimi, imam ritenuto tra i principali ispiratori della jihad nel Paese. Ciò dimostrerebbe il coinvolgimento di membri di spicco della comunità islamica nel reclutamento jihadista sebbene ci siano mufti, come Naim Ternava, impegnati contro la partecipazione dei giovani kosovari a gruppi terroristici.
Quello dell’islamismo radicale nella regione è un fenomeno che risale alla guerra balcanica, con la disgregazione della Jugoslavia di Tito. Fino a quel momento scuole coraniche e madrasse fondamentaliste non erano diffuse. Cellule islamiste radicali cominciarono ad operare nel tessuto musulmano soprattutto con il conflitto in Bosnia (1992-1995) dove giunsero volontari arabi e islamici per combattere a fianco dei musulmani bosniaci e difendere i propri correligionari. Alla fine delle ostilità, dopo la pace di Dayton, molti di questi combattenti rientrarono nei rispettivi Paesi, molti altri, invece, ottennero la cittadinanza bosniaca per meriti militari o perché sposarono donne bosniache. Da lì la nascita di comunità di musulmani integralisti bosniaci soprattutto nella Bosnia centrale e del nordest. Le prese di distanza dalla visione dell’Islam radicale dei jihadisti da parte di esponenti delle comunità islamiche locali, che hanno condannato a più riprese le violenze dell’Is, non fanno altro che mettere in evidenza la difficoltà di relazione e di rapporto tra membri della stessa religione.
Ma cosa spinge tante persone, soprattutto giovani balcanici ad abbracciare la causa del fondamentalismo islamico al punto di lasciare il proprio Paese e andare a combattere in Siria e Iraq? Oltre al dissesto economico che genera povertà e disoccupazione – in Kosovo il 40% della popolazione non ha lavoro, in Bosnia la percentuale sale al 44,5% (maggio 2014) – le cause vanno ricercate anche nella debolezza delle strutture statali e soprattutto nella marginalizzazione delle fasce più giovani della popolazione sedotte dall’idea di combattere, retribuite, la jihad. Un vuoto di identità e di appartenenza colmato dalla predicazione radicale di alcuni imam. Altro problema che si pone è il rientro in patria di questi jihadisti europei. Il rischio concreto, paventato da diversi analisti e istituti, tra cui il World Security network per l’Europa sudorientale, è quello che in Siria e in Iraq questi siano entrati in contatto con network organizzati del terrore e che una volta tornati possano riattivarsi. Se ciò dovesse verificarsi potrebbero esserci gravi rischi, non solo per la sicurezza interna dei vari Paesi balcanici ma anche per la stessa Europa. Quest’ultima, pertanto, farebbe bene a prestare maggiore attenzione sociale e politica al suo versante orientale.
Di Daniele Rocchi per Agensir
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