«La situazione politica in Israele e Palestina è lontana dall’essere normale, contrassegnata com’è da un conflitto che continua tra i due popoli». Per questo – soprattutto «in un contesto politico confuso e senza speranza» – la Chiesa deve fare attenzione a non accettare modalità di rapporto con lo Stato di Israele che portino a ritenere «un fatto normale» l’occupazione di territori, le ingiustizie e le discriminazioni che il conflitto provoca a Gerusalemme Est e in Palestina.
A pronunciarsi in questo modo – a pochi giorni dai cinquant’anni dalla Guerra dei Sei giorni, il conflitto che nel 1967 vide Israele assumere il controllo di tutta Gerusalemme e della Cisgiordania – è la Commissione Giustizia e Pace dell’Assemblea degli Ordinari Cattolici della Terra Santa, la Conferenza episcopale che vede insieme il patriarcato latino e la altre comunità cattoliche di rito orientale presenti a Gerusalemme. La dichiarazione si intitola «La questione della “normalizzazione”» ed è un testo che affronta un tema caldissimo all’interno della società palestinese. In discussione c’è infatti l’atteggiamento da tenere nei rapporti con lo Stato di Israele, le sue istituzioni, i suoi stessi cittadini: è possibile ed è giusto farlo da palestinesi come «se si vivesse in una situazione normale»?
Il documento ricorda come per tanti aspetti «lo Stato di Palestina» continui a vivere sotto un’occupazione militare israeliana, con la necessità di richiedere permessi anche per molti aspetti della vita quotidiana. Cita le ingiustizie provocate dagli insediamenti e dalla legalizzazione di costruzioni israeliane; e poi le violazioni alla libertà di movimento, le restrizioni alle attività economiche, gli ostacoli ai ricongiungimenti tra le famiglie. Ma chiama in causa anche le discriminazioni contro gli arabi con cittadinanza israeliana che vivono all’interno dei confini riconosciuti prima del 1967. «La Chiesa – scrive la commissione degli Ordinari cattolici della Terra Santa – non può ignorare l’ingiustizia, facendo finta che vada tutto bene».
«Vi sono più di 300mila cristiani che vivono oggi in Israele – continua il testo -. Cittadini e residenti a lungo termine che sono persone rispettose delle leggi, ma hanno anche il diritto e il dovere morale di utilizzare tutti gli strumenti legali e i metodi non-violenti per promuovere pieni diritti e completa uguaglianza per tutti i cittadini. Ignorarlo o sminuirlo sarebbe una forma di normalizzazione».
La sfida è delicata, anche perché – ricorda il documento – la Chiesa stessa è chiamata a chiedere permessi e a rapportarsi alle autorità israeliane per garantire l’attività delle proprie parrocchie, scuole o istituzioni. In queste relazioni – scrive dunque la Commissione Giustizia e Pace – occorre costantemente «discernere tra ciò che è inevitabile o ciò che invece deve essere evitato», proprio per non dare l’impressione che una situazione come questa possa essere considerata normale. Insieme a questo la Chiesa punta a promuovere il dialogo tra tutti coloro che, israeliani o palestinesi, «non vogliono perpetuare questa situazione» e non si nascondo dietro «la presunzione che la collaborazione possa ignorare la battaglia per la giustizia, nascondendo realtà ingiuste che scandiscono le vite quotidiane di chi sperimenta l’occupazione o la discriminazione».
«La Chiesa che è in Israele e Palestina – conclude la Commissione Giustizia e Pace dei cattolici di Gerusalemme – ha la responsabilità di ricordare alla Chiesa universale che quella tra israeliani e palestinesi è una ferita aperta e purulenta». Di qui l’invito alle comunità cristiane e ai singoli credenti «a consultarsi e a lavorare strettamente per trovare le vie migliori per testimoniare una società giusta e uguale per tutti, al tempo stesso coltivando relazioni rispettose con tutti i cittadini, con i quali sono chiamati a vivere insieme per una pace giusta e duratura».
Fonte www.lastampa.it
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