Categorie: Finis Mundi

Katanga, le miniere producono ricchezza ma non per il popolo

“Il Katanga è ricco di risorse, ma la gente è povera: molti giovani si dedicano all’estrazione artigianale di minerali e molti altri sono disoccupati, non circola quasi denaro e la maggior parte della popolazione è realmente in miseria”. La denuncia delle condizioni di vita nella provincia meridionale della Repubblica Democratica del Congo (Rdc) arriva dall’abbé Marcel Nguej, responsabile locale della Commissione giustizia e pace, e riprende i temi della lettera pastorale diffusa a fine febbraio dai vescovi di tutto il Katanga. Il documento da settimane viene letto e discusso in tutte le parrocchie, perché affronta le questioni più pressanti per la popolazione: la sicurezza e la gestione delle ricchezze naturali dell’area.

Secessionisti e risorse naturali. A spaventare la popolazione sono soprattutto le azioni dei guerriglieri di Bakata Katanga, movimento guidato dal signore della guerra Kyungu Mutanda, meglio noto come “Gédeon”,

che, dichiarando di puntare alla secessione, evoca quelle pulsioni indipendentiste già emerse nella regione dopo la fine del dominio coloniale belga sul Congo, nel 1960. In molti si chiedono “da chi siano sostenuti” i ribelli, dice padre Thomas Malal, katanghese, consigliere generale della congregazione dei Salvatoriani: “Un movimento come questo non può continuare a fare del male, ormai da qualche anno, senza avere nessuno alle spalle: non è possibile capire di chi si tratti, ma non c’è altra spiegazione!”, prosegue. Il tema della violenza e delle rinnovate spinte separatiste, considerate un pretesto da molti osservatori, va in effetti visto anche alla luce della presenza dei giacimenti minerari (rame, cobalto, uranio, diamanti): questi, come in altre regioni del Congo, rappresentano una fonte di ricchezza potenziale non solo per il governo locale, ma anche per altri soggetti, che spesso danno vita ai gruppi armati. Un miraggio, quello della ricchezza facile, che si fa strada anche tra la popolazione, continua l’abbé Nguej: persino chi potrebbe svolgere altri mestieri “va a mettersi in fila per essere assunto” nel settore minerario, racconta, “ma gli impieghi sono già limitati” e chi non riesce a trovare un lavoro neanche nell’economia informale resta disoccupato, se non cede addirittura alla tentazione di aggregarsi ai ribelli.

Appello alle autorità. La Chiesa cerca di sensibilizzare, attraverso incontri nelle parrocchie e nei villaggi, i fedeli sulle difficoltà che la scelta di abbandonare le proprie case porta con sé ma, dice il responsabile della Ccommissione giustizia e pace, “è un lavoro di lungo respiro” e non ci si possono attendere “risultati immediati”. Alla gente, continua l’abbé Nguej, “chiediamo d’impegnarsi nell’agricoltura e nell’allevamento, ma chi lavora nelle miniere spera di guadagnare rapidamente quel po’ di denaro che serve a sopravvivere, mentre coltivando i campi bisogna aspettare tre o quattro mesi per avere qualche entrata”. Quindi, conclude il religioso, “molti preferiscono andare in città e racimolare un po’ di soldi lavorando a volte qui, a volte là”, mentre in molti villaggi “non è rimasto nessuno se non anziani e donne”. “Se i giovani potessero avere un lavoro – chiarisce da parte sua padre Malal – si potrebbe evitare il loro arruolamento nei gruppi armati”. La Chiesa, sottolinea il sacerdote salvatoriano, è da sempre impegnata in questo senso “creando scuole e altre strutture per preparare i giovani, ma anche il governo deve aiutare in questo campo, o l’azione ecclesiale non potrà bastare”.

Mancanza di servizi. Se padre Malal chiede alle autorità “un programma per l’occupazione”, l’abbé Nguej si rivolge alla comunità internazionale, perché faccia pressione sulle compagnie minerarie, in nome di uno “spirito di condivisione, che possa aiutare anche noi congolesi a beneficiare delle risorse che abbiamo”. Le imprese cercano il loro guadagno “perché questo è il capitalismo”, riconosce il sacerdote, “ma c’è una popolazione che ha bisogno di vivere e a cui basterebbe poco”. A livello internazionale, dice, si dovrebbe “insistere perché vengano costruite infrastrutture, strade, fatti lavori di manutenzione”. Nell’area, infatti, mancano molti servizi, compresa spesso “l’acqua potabile”, sostiene il responsabile di giustizia e pace, che ricorda, infine, la situazione dei lavoratori dell’impresa mineraria statale Gecamines, molti dei quali “non ricevono la paga da ormai due mesi”. di Davide Maggiore 

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