R. – Colpisce che in situazioni di questo tipo, di fronte a tragedie come quelle che si sono verificate al Campus universitario di Garissa, la comunità a livello locale si stringa e faccia corpo comune. Infatti, sono scene che noi magari siamo più abituati a vedere nel mondo occidentale e pensiamo che non possano accadere in Paesi a noi lontani e dove le dinamiche di frammentazione politica, etnica e religiosa ci appaiono più marcate. E invece è chiaro che a subire i danni peggiori di questi atti di violenza sono proprio le comunità locali. E’ giusto, è opportuno ed è comprensibile che la popolazione si schieri compatta contro questo tipo di eventi, questi atti di terrorismo che vanno direttamente a colpire la popolazione locale. E ricordiamoci che è stato un attacco a un Campus universitario, che è simbolo un po’ del tentativo di un Paese in via di sviluppo di far crescere la sua gioventù, di farle acquisire gli strumenti, i know how, per poter appunto uscire dal sottosviluppo e elaborare forme, strategie, modalità di crescita economica e sviluppo socio-politico e socio-economico.
D. – Ci sono state polemiche nei confronti di polizia, governo, sulla reazione all’attentato. C’è un senso di insicurezza crescente nel Paese?
R. – Le polemiche non sono le prime. Se torniamo indietro a quello che era successo al mall, al Westgate mall di Nairobi, lì, le polemiche furono molti forti per il ritardo nell’intervento, per le modalità nell’intervento contro i terroristi. Lo stesso è avvenuto anche in occasione del recente massacro a Garissa. Il livello di insicurezza è dato dal fatto che la minaccia è sempre più difficile da controllare. Questi atti sono di difficile gestione, di difficile prevenzione. Quindi è chiaro che già di base c’è un problema di inadeguatezza degli strumenti. Poi, le forze di polizia e di sicurezza kenyote, che sono comunque tra quelle meglio dotate nel continente africano, si trovano anche a dover agire in poco tempo e con strumenti a volte non totalmente adeguati. Quindi, da qui le polemiche che poi a volte riguardano anche l’uso un po’ troppo leggero della forza e indiscriminato, che vanno un po’ a colpire chiunque, non solo gli attentatori.
D. – Gli Shabaab, gruppo somalo: tra le dinamiche sociali più preoccupanti c’è la possibile ostilità nei confronti della comunità somala?
R. – Quella è una questione molto complessa. Garissa si trova in prossimità del più grande Campo profughi al mondo, quello di Dadaab, che ospita profughi, rifugiati somali e che è da tantissimo tempo è oggetto di tensioni… . Ed è simbolo dell’afflusso costante di profughi dalla Somalia: vuoi per motivi di instabilità politico-militare, vuoi per il terrorismo, vuoi anche per le cicliche situazioni di crisi umanitaria legate appunto agli effetti dei mutamenti climatici, quindi alla siccità e alle carestie collegate. E’ ovvio che un evento di questo tipo non fa che esacerbare le tensioni che ci sono già da tempo tra la comunità kenyota e la comunità somala. Quindi, sicuramente un occhio di riguardo da parte delle istituzioni e della popolazione locale va posto per evitare una condizione di discriminazione totale, tout court. Bisogna andare a capire che chi ha operato questo efferato atto è una componente minoritaria della popolazione somala e con strategie politiche e militari molto chiare.
Dal Kenya padre Paolo Latorre racconta, nell’intervista di Fausta Speranza, sentimenti, paure, speranze della popolazione;
R. – Eh sì, questa è la cosa interessante in questo momento. Nei giorni precedenti c’era stata anche una manifestazione dei musulmani in un quartiere dove la predominanza musulmana e somale è altissima… Lì c’è stata questa manifestazione, che voleva essere di presa di distanza da quanto accaduto. In questa manifestazione, dove erano presenti per lo più giovani, tanti dicevano rivolgendosi ai ragazzi uccisi a Garissa: “Non vi dimenticheremo! Non vi dimentichiamo!”. Chi è stato lì, in città alla manifestazione, mi ha raccontato che è stata una marcia composta, ma si sentiva molta, molta rabbia: si sentiva molta rabbia per tutto questo, perché è inaudito quello che questi al-Shabaab hanno fatto in passato, fanno e minacciano di fare. La rabbia è dovuta anche alla risposta che il governo del Kenya ha dato, con molto ritardo… Chi ha partecipato mi ha anche detto che c’è stato anche qualche piccolo momento di tensione, non tanta, fuori della caserma centrale della Polizia. In queste situazioni è facile… Siamo in un Paese in cui la miccia del tribalismo, della tendenza a categorizzare, a generalizzare è forte: se un somalo ha partecipato all’atto terroristico, adesso per qualcuno è facile prendersela con tutti i somali che sono qui in Kenya e che sono tanti. Questo è un Paese in cui questa miccia del tribalismo è molto forte e quindi la paura è proprio questa: che al-Shabaab possa riuscire a dividere questo Paese tra etnie e adesso anche tra religioni. Se questi sono i segni, c’è però la speranza che non si cada in questo tranello. Ma se ci si dovesse cadere, la situazione sarebbe veramente triste!
D. – In questo drammatico attacco sono stati colpiti al cuore i giovani. E’ pensabile, padre, che proprio dai giovani venga una risposta diversa al rischio di tensioni sociali ulteriori?
R. – Questo non lo so dire… I giovani sono composti, malgrado la disoccupazione, malgrado le difficoltà che stanno affrontando: che non stia succedendo nulla è già un grosso miracolo, perché la disoccupazione, la povertà, il divario sono gravi… Pensiamo che il Kenya, che è orientato verso il capitalismo, sta perdendo la classe media. Quindi qui o sei poverissimo – ed io ho lavorato negli anni scorsi e vado ancora ad incontrare la gente e a dare l’Eucaristia a lavoratori poveri – oppure sei ricchissimo. Nonostante questo, c’è molta compostezza. Speriamo che questa rabbia possa essere vissuta e incanalata in maniera più proficua e non generare altra guerra.
D. – Quanto è importante che siano cristiani e musulmani insieme, come nella manifestazione contro il terrorismo, a dare risposte contrarie alla violenza?
R. – E’ molto importante! E’ molto importante perché qui la risposta deve essere univoca e deve prendere le distanze dalle dichiarazioni che la violenza viene fatta in nome di Dio. Questa è la risposta che si vuole dare. Per noi cristiani questo è molto più facile; per i musulmani è un qualcosa che deve prendere piede, che sta prendendo piede. I segni ci sono, ma per loro è molto più difficile. Però la vicinanza in questo momento e il dichiararsi contro la violenza è già un passo in avanti.
A cura di Redazione Papaboys fonte: Radio Vaticana
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