La Befana con le scarpe tutte rotte siamo noi

Mai avrei pensato che una filastrocca per bambini mi avrebbe messo malinconia. Il fatto è che le scarpe tutte rotte non mi sembrano tanto lontane. Ho cinquantacinque anni e conosco tanti e tante della mia età che sono sull’orlo del precipizio.
L’altro giorno scherzavo con una signora di questo, e abbiamo pensato alla Befana che siamo noi, con un sorriso amaro. Lei ha una buona posizione. Sulla carta. Ma sotto il sedere la posizione non è tanto buona: la sedia balla. Il suo posto di lavoro – di lei dirigente – è più a rischio del venticinquenne con il master. Lei all’azienda costa di più. Sono diventata un costo, mi diceva. Ero una giovane promessa: ora sono una promessa mantenuta ma prima ero una risorsa e ora sono un costo. Se l’azienda va in ristrutturazione per crisi, i dirigenti e i cinquantenni sono i primi che saltano. Se va bene ti propongono una scrivania in un altro paese, anche continente, ma non è l’Erasmus e non hai vent’anni. Hai moglie e figli adolescenti e dire andiamo invece che vado, non è semplice.
La generazione precedente la mia, a cinquant’anni anni iniziava la discesa. Metteva i remi in barca, dava un colpo ogni tanto per aggiustare la rotta e si godeva il panorama perché il più era fatto. I giochi erano fatti. Avevi tirato come un matto fino a trent’anni. Da trenta e quaranta ti posizionavi e tra quaranta e cinquanta spiccavi il salto: dirigenza o studio da solo con targhetta fuori dal portone. Poi ti godevi il figlio diplomato, laureato, che entrava nel mondo del lavoro. Adesso, a cinquanta, come ti rimetti sul mercato del lavoro? trovi solo le bancarelle. E per gli affetti come la mettiamo? Negli anni ’70 e ’80 ci credevi ancora che il matrimonio o il sacerdozio durava per tutta la vita.
E poi, noi che siamo quelli che stiamo in mezzo, siamo soli. Per i venti-trentenni è dura, ma lo è sempre stato; e gli adolescenti nativo-digitali sono nativo-liquidi e hanno le pinne al posto dei piedi: si sono adattati alla società trasformata. Non hanno certezze ma a quell’età l’idea ti diverte, ti dà voglia di sfida. Un’altra signora della stessa generazione – ecco perché pensavo alla Befana con le scarpe tutte rotte – mi raccontava che la mamma, cioè la nonna, le diceva: “Io con te non facevo così”. Si riferiva al rapporto con i figli adolescenti ma non si ricorda, la nonna, che l’espressione “rapporto con i figli”, la mia generazione, quando era figlia, non la conosceva. Avevamo genitori monoliti di certezze. Da espugnare. Giusto o sbagliato che fosse, loro avevano certezze. I figli obbedivano. Punto. Oggi i punti non esistono. Poche le virgole e tantissimi i puntini di sospensione. Non è che non abbiamo autorità. È che la nostra è la prima generazione di preti e genitori che hanno figli e giovani che si muovono nel mondo meglio di noi. Non è un capovolgimento da poco. Sono i figli che ci sbloccano il tablet, che ci resettano il computer, che ci spiegano le funzioni del cellulare e fanno gli acquisti per internet e prenotano gli aerei. Se noi Befani e Befane con le scarpe tutte rotte parliamo a loro delle nostre paure e delle cose che ci spaventano di questo mondo, dal wifi che non funziona alla crisi economica mondiale, loro ci guardano con impazienza. Non è solo spavalda adolescenza, incosciente gioventù. È che per me la paura della crisi è nuova perché io non vengo dalla crisi, invece loro nella crisi ci sono cresciuti. Io, a trent’anni, avevo più certezze, interiori ed economiche, di quante ne ho oggi. Non è poco. Un conto è essere poveri e un conto è diventare poveri. I nostri figli sono cresciuti nelle tavolate di grandi che dicono che l’Italia è finita, che ci ridono dietro tutti, che siamo gli ultimi, che i nostri laureati se ne vanno perché qui non trovano lavoro. Agli inizi degli anni ’70 l’Italia era la quarta economia mondiale (o qualcosa del genere). Loro non possono avere paura della crisi perché vorrebbe dire avere paura della vita, e a sedici anni la tua vita non ti fa paura se no non vivi: sei programmato per la vittoria, diciamo. A me il pavimento balla sotto i piedi e ho paura, loro ballano col pavimento. Gli adolescenti di oggi hanno una maturità strana, estraniante.
Una maturità immatura, per noi Befane con le scarpe rotte. Sono sedicenni che hanno imparato a infilare sogni extra large in prospettive taglia small. Io, a cinquantacinque anni, faccio una fatica boia. E la metà delle volte non ci riesco. E per di più, magari, abbiamo ancora dei genitori vivi che con la loro pensione messa assieme prendono più soldi di quelli che entrano nella mia famiglia. A noi della generazione cerniera. Eppure, conosco Befane con le scarpe rotte, che sono tutte ben truccate, vestite, pettinate, che sono tostissime, anche se i loro lavori sono lì che traballano. Eppure sono pronte a rilavorare, qualsiasi cosa. Pronte a fare le ventenni come se non ci fosse il raddoppio di anni. Sì, devo dire che questi Befani e queste Befane, alle volte mi commuovono per come, con tante difficoltà, sono lì a sostenere figli e marito e mogli.
Spaesati ma solidi. Accettando di sembrare pesci in barile anche se non lo sono per nulla. Davanti a quei figli così differenti da loro. E che vanno avanti e sanno stare zitte e zitti. E tirano avanti anche se non sono autorevoli. Ma hanno imparato ad ascoltare. Le mamme soprattutto: sono brave ad ascoltare. Se non capiscono, ascoltano. Anche se non urlano e sono stanche e preoccupate. Ascoltano. A molti e molte non è durato il matrimonio: sì, quello che negli anni ’70 – ’80 durava di certo. E lì con i vent’anni anni di matrimonio sulle spalle, arrancano ma ci sono. Ci credevano al per sempre e ora si trovano con una vita con gli alimenti che non è la loro. La differenza con chi si sposa adesso non è da poco perché noi ci credevamo e loro no. La botta è enorme.
Non volevo essere amaro ma solo dire che sto in mezzo, che noi che stiamo in mezzo, ci siamo. Noi, ci siamo. A tenere duro, a tenere unito tutto e lavoriamo e aspettiamo.
Adesso aspetto la Befana per mangiarmi i dolci con gli amici.
E li saluto e dirò loro: ce la faremo.
E non è poco.

Di Don Mauro Leonardi

Articolo tratto da L’Huffingtonpost

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