Il 19
«Hanno cominciato a segnare le case dei cristiani con la lettera N, la “Nun” di Nasara ed hanno occupato il vescovado caldeo sul quale ora sventola la loro bandiera», aveva gridato con tono sconsolato al telefono quel giorno un vescovo iracheno. La «N» della vergogna, il marchio del «nazislamismo» – come lo avrebbe definito poco dopo Bernard Henri Lévy – compie un anno.
Il 19 luglio dell’anno scorso scadeva l’ultimatum di 48 ore che metteva al bando definitivamente la presenza cristiana a Mosul: una diversità da sopprimere perché intollerabile nella logica totalitaria di chi con la violenza ha voluto fare dell’applicazione fanatica della sharia non solo un’ideologia, ma addirittura una entità statale. Una «N» sui muri del quartiere cristiano di Mosul, ormai disabitato, per dare mano libera al saccheggio, alla “espropriazione islamista”, alla cancellazione dei simboli e dei monumenti. Un “etnocidio” pianificato e gridato negli altoparlanti o scritto in proclami affissi sui muri, per fare con la razzia casa per casa della minoranza una vera terra bruciata.
Tra quel grido disperato dei 150mila cristiani di Mosul e della Piana di Ninive alla comunità internazionale e i campi profughi dove vivono oggi assieme a yazidi, turcomanni e musulmani sunniti (un milione di rifugiati nel solo Kurdistan iracheno), tra quel grido ormai dimenticato e queste baraccopoli, resta solo un impraticabile deserto.
È il deserto che separa le ultime linee dei miliziani dell’Is dagli avamposti dei peshmerga curdi. Una terra di nessuno, a marcare la distanza fra la barbarie che pretende di farsi Stato e la speranza di una sopravvivenza, sia pure nella emergenza umanitaria.
È il deserto in cui Khalil al-Dakhi, avvocato yazida, almeno una volta alla settimana si apposta con i suoi collaboratori prima dell’alba. Costretto anche lui a scappare un anno fa, ha costituito una rete segreta che raccoglie le segnalazione su donne yazide rapite. Dhaki va nei campi profughi dove ci sono famiglie di yazidi e fa conoscere le attività della sua rete. Sono le stesse prigioniere che, attraverso i parenti, entrano in contatto con cellulari sottratti e organizzano, dopo serrate trattative, fughe notturne. Un lavoro pericoloso: tre collaboratori di questo “Schindler” yazida sono stati uccisi. Ma questo non ferma le spedizioni al limitare del deserto: «Non posso immaginare di non vedere mia figlia due o tre volte al giorno, non abbracciarla. Ora ci sono centinaia di bambine come la mia che sono state prese».
Ma oltre quel deserto, in attesa di una risposta della comunità internazionale, vi è – come un miraggio per tutti i cristiani – il desiderio struggente, la nostalgia della terra. «Quando potremo tornare?», continuano a chiedere i cristiani della Valle di Ninive. E subito dopo, come un solo mantra: «Vogliamo tornare, ma solo con una protezione internazionale».
Come fidarsi di chi ti ha saccheggiato la casa abbandonata in una notte un anno fa? Come fidarsi di chi ha fatto entrare gli uomini dello Stato islamico senza sparare un colpo? «Ci piacerebbe essere parte del Kurdistan, come regione indipendente. In questa regione è meglio vivere con i curdi», dichiara al sito Ankawa.com, Albert Kisso, capo di una piccola milizia chiamata Dwekh Nawsha. «Noi avevamo fiducia nell’esercito iracheno, ma non hanno combattuto, non hanno sparato neanche una pallottola».
Se c’è chi sogna una Piana di Ninive indipendente sotto l’autorità del Kurdistan, la realtà presente è come un limbo senza terra e senza tempo: «Purtroppo – dichiara il vescovo ausiliare caldeo di Baghdad, Basilio Yaldo – noi siamo quel che resta, perché il martirio è il carisma della nostra Chiesa: all’inizio è stata perseguitata dai persiani, poi dagli arabi, poi dai mongoli, dagli ottomani. Adesso dal Daesh!», l’acronimo di Is in arabo. Una vergogna, quella «N», ancora da cancellare.
Di Luca Geronico per Avvenire
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