Salvatore Cernuzio – Città del Vaticano per Vaticannews.va
In piedi dinanzi alla Madonna, accompagnato da una famiglia di migranti con quattro bambini, Francesco, nel Centro “Giovanni XXIII Peace Lab” ad Hal Far – ultima tappa del viaggio a Malta – recita una preghiera universale per i migranti che hanno solcato con i loro piedi provati questa terra di partenze e di approdi e i cui diritti sono “soffocati” a volte “con la complicità delle autorità competenti”. Poi accende un cero bianco, simbolo di “fede” e “speranza” ma anche di una fiamma che deve tornare ad accendersi nell’anima di un’Europa afflitta da divisioni fratricide: quella dell’“umanità”.
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Nell’umanità “c’è il futuro della famiglia umana in un mondo globalizzato”, afferma il Pontefice nel suo ultimo discorso in terra maltese. Essa si concretizza nel guardare “le persone non come dei numeri, ma per quello che sono, cioè dei volti, delle storie, semplicemente uomini e donne, fratelli e sorelle. E pensando che al posto di quella persona che vedo su un barcone o in mare alla televisione, o in una foto, al posto suo potrei esserci io, o mio figlio, o mia figlia…”.
Il Papa ricorda il naufragio avvenuto ieri al largo della Libia, dove sono stati salvati solo quattro migranti “su una imbarcazione che ne portava 90”. Prega “per questi nostri fratelli che hanno trovato la morte in questo modo” e mette in guardia da un altro naufragio, altrettanto drammatico e pericoloso, il “naufragio di civiltà”.
“Quella del naufragio è un’esperienza che migliaia di uomini, donne e bambini hanno fatto in questi anni nel Mediterraneo. E purtroppo per molti di loro è stata tragica. Ma c’è un altro naufragio che si consuma mentre succedono questi fatti: è il naufragio della civiltà, che minaccia non solo i profughi, ma tutti noi. Come possiamo salvarci da questo naufragio che rischia di far affondare la nave della nostra civiltà? Comportandoci con umanità”.
La realtà delle migrazioni “è un segno dei tempi dove è in gioco la civiltà”, afferma il Papa. Per i cristiani “è in gioco anche la fedeltà al Vangelo”. Il rischio è, appunto, “il naufragio di civiltà”, afferma Francesco reiterando la denuncia già espressa a Lesbo a dicembre, quando il mondo ancora non poteva prefigurare la “guerra sacrilega” in Ucraina. “Le vostre storie fanno pensare a quelle di migliaia e migliaia di persone che nei giorni scorsi sono state costrette a fuggire dall’Ucraina a causa di una guerra ingiusta e selvaggia”, dice il Pontefice a Daniel e Siriman, profughi dell’Africa che hanno condiviso la loro drammatica testimonianza: “Ci avete aperto il vostro cuore e la vostra vita”.
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A loro, ma idealmente a tutti i migranti del mondo, il Papa torna a ribadire, come a Lesbo: “Vi sono vicino… Sono qui per vedere i vostri volti, per guardarvi negli occhi. Dal giorno in cui andai a Lampedusa, non vi ho mai dimenticato. Vi porto sempre nel cuore e siete sempre presenti nelle mie preghiere”. Parole di tenerezza che risuonano nel teatro all’aperto del centro, fondato nel 1971 dal francescano Dionysus Mintoff e intitolato al Papa buono. È proprio l’anziano padre Dionysus ad aprire con il suo saluto l’incontro, al quale Francesco arriva dopo aver visitato brevemente un alloggio e i suoi abitanti.
Francesco richiama il motto del viaggio apostolico: “Ci trattarono con rara umanità”, citazione degli Atti degli Apostoli sul modo in cui i maltesi accolsero l’apostolo Paolo e i suoi compagni naufragati presso l’Isola: “Auguro a Malta di trattare sempre in questo modo quanti approdano alle sue coste, di essere davvero per loro un porto sicuro”.
Il Pontefice si rivolge poi a Siriman, che parlava del “sogno di libertà e democrazia” che accompagna il viaggio di chi lascia il proprio Paese. Un sogno che “si scontra con una realtà dura, spesso pericolosa, a volte terribile, disumana”, osserva il Papa. “Tu – dice al giovane africano – hai dato voce all’appello soffocato di milioni di migranti i cui diritti fondamentali sono violati, purtroppo a volte con la complicità delle autorità competenti. E hai richiamato l’attenzione sul punto-chiave: la dignità della persona. Lo ribadisco con le tue parole: voi non siete numeri, ma persone in carne e ossa, volti, sogni a volte infranti”.
Da questo si può e si deve ripartire: “dalle persone e dalla loro dignità”.
“Non lasciamoci ingannare da chi dice: ‘Non c’è niente da fare’, ‘sono problemi più grandi di noi’, ‘io faccio gli affari miei e gli altri si arrangino’. No. Non cadiamo in questa trappola. Rispondiamo alla sfida dei migranti e dei rifugiati con lo stile dell’umanità, accendiamo fuochi di fraternità, intorno ai quali le persone possano riscaldarsi, risollevarsi, riaccendere la speranza”.
Papa Francesco guarda poi all’attualità: “Forse anche in questo momento, mentre siamo qui, dei barconi stanno attraversando il mare da sud a nord…”. Invita quindi alla preghiera per tutti i fratelli e le sorelle “che rischiano la vita nel mare in cerca di speranza”. Sono tanti, troppi, coloro “che, alla ricerca di un luogo sicuro, si sono visti obbligati a lasciare la propria casa e la propria terra in Asia, in Africa e nelle Americhe. Penso ai Rohingya”.
“Ognuno di voi ha vissuto questa esperienza di partire staccandosi dalle proprie radici. È uno strappo. Uno strappo che lascia il segno. Non solo un dolore momentaneo, emotivo. Lascia una ferita profonda nel cammino di crescita di un giovane, di una giovane. Ci vuole tempo per risanare questa ferita; ci vuole tempo e soprattutto ci vogliono esperienze ricche di umanità: incontrare persone accoglienti, che sanno ascoltare, comprendere, accompagnare; e anche stare insieme ad altri compagni di viaggio, per condividere, per portare insieme il peso… Questo aiuta a rimarginare le ferite”.
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Francesco esprime il suo di sogno, e cioè che i migranti, dopo aver sperimentato un’accoglienza “ricca di umanità e fraternità”, possano diventare “animatori di accoglienza e fraternità”.
“Una volta rimarginata la ferita dello strappo, dello sradicamento, voi potete far emergere questa ricchezza che portate dentro, un patrimonio di umanità preziosissimo, e metterla in comune con le comunità nelle quali siete accolti e negli ambienti dove vi inserite. Questa è la strada! La strada della fraternità e dell’amicizia sociale”.
Da qui un appello ai centri di accoglienza ad essere “luoghi di umanità”, nonostante le “tensioni e rigidità”, e anche a rafforzare “il tessuto dell’amicizia sociale e la cultura dell’incontro, partendo da luoghi come questo, che certamente non saranno perfetti, ma sono laboratori di pace”. Quella pace cristallizzata da Giovanni XXIII nella sua “memorabile” Pacem in Terris, di cui il Papa cita ampi stralci:
“Allontani il Signore dal cuore degli uomini ciò che la può mettere in pericolo – la pace –; e li trasformi in testimoni di verità, di giustizia, di amore fraterno. Illumini i responsabili dei popoli, affinché accanto alle sollecitudini per il giusto benessere dei loro cittadini garantiscano e difendano il gran dono della pace”.
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