Federico Piana- Città del Vaticano
Chiedere al vescovo di Bergamo in che modo la sua comunità vive il Giovedì Santo è un po’ come cospargere di sale una ferita ancora aperta. Monsignor Francesco Beschi è consapevole che, in una delle zone più colpite d’Italia dalla pandemia e costata la vita anche a ventiquattro suoi sacerdoti, la giornata dedicata alla memoria dell’istituzione dell’Eucaristia e del sacerdozio, non può che essere una giornata di dolore. E se poi si aggiunge la sospensione della Messa del Crisma, nella quale proprio il Giovedì Santo la Chiesa locale e i ministri si stringono attorno al loro pastore, il dolore si trasforma in strazio. “E’ vero. Il dolore sta dominando i nostri sentimenti ma non manca la speranza, che purtroppo in queste settimane ha dovuto fare i conti con la sofferenza della mia gente e del mio presbiterio. Ma rimane pur sempre un dolore illuminato dalla speranza”.
I suoi sacerdoti non hanno mai smesso di essere in prima linea…
R.- Le parrocchie, fin dall’inizio, sono state presenti per alimentare la fede e la gioia delle persone, per mantenere l’unità della comunità. Lo sconforto e l’afflizione la condivideremo nella celebrazione serale di questo Giovedì santo, la messa in Cena Domini, che si svolgerà nella chiesa dell’ospedale ‘Papa Giovanni XXIII’, diventato l’emblema della lotta al coronavirus. Qui ho deciso di celebrare anche la liturgia del Venerdì santo.
In che modo si sta stringendo ai suoi preti?
R.- Ho scritto loro una lettera nella quale ho espresso gratitudine ed ammirazione per ciò che sono stati in grado di fare. E ho messo in evidenza la gioia della comunione che ho sperimentato essere diventata più profonda rispetto a prima della pandemia. Ho anche colto l’occasione per chiedergli perdono per tutte le volte che questa comunione non si è concretizzata.
E’ cresciuta anche la carità fraterna?
R.- Ho chiesto ai miei sacerdoti di devolvere tre mensilità del loro ‘stipendio’ da destinare ad un fondo creato per andare incontro a tutte le sfide che ci attendono: ho ricevuto un’ottima risposta.
La pandemia come ha cambiato il rapporto tra vescovo e sacerdoti?
R. – Oltre ai ventiquattro sacerdoti uccisi dal virus, noi abbiamo avuto anche decine di altri preti malati, alcuni dei quali molto gravi. Questa situazione ha generato una relazione più fraterna tra i sacerdoti e degli stessi sacerdoti con il vescovo. La caratteristica del nuovo rapporto che si è instaurato dopo la pandemia è la spontaneità, elemento apprezzato da tutti.
Con che occhi guarda alla Pasqua?
R. – L’impossibilità di celebrare i riti della Settimana Santa insieme alla comunità è un sacrificio enorme ma che facciamo con tutto il cuore pur di contenere il contagio e salvare vite. D’altronde, l’essenzialità delle celebrazioni ci provoca alla verità. I segni sono importanti se corrispondono alla verità della vita. La nostra situazione si può rappresentare con l’immagine dell’esilio: siamo stati esiliati da tutto ciò che erano le abitudini della nostra vita quotidiana e della nostra vita ecclesiale. E come il popolo in esilio, non abbiamo più nulla di quello che avevamo prima. Allora cosa ci resta? Ci rimane la preghiera, la Parola di Dio, la condivisone fraterna ma soprattutto mettere la nostra vita nelle mani del Signore. Questo può essere un dinamismo pasquale fortissimo. Morire con Cristo per risorgere con Lui.
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