I fatti drammatici di queste ultime settimane a Palmira e a Qaryatain, dove numerose famiglie siro-cattoliche sono state spietatamente sequestrate e poi in parte rilasciate, mi hanno scosso e riportato alla piena comunione con il martirio di tanti fratelli che in Medio oriente continuano, senza perdere mai la speranza, a testimoniare la croce di Cristo abbattuta dalle loro chiese, dai loro monasteri, ma non dai loro cuori.
Nell’estate del 1922 il monaco benedettino di Montserrat, dom Bonaventura Ubach, soggiornò diverse settimane nel villaggio di Qaryatain, vicino a Palmira, per approfondire lo studio del siriaco e prepararsi alla sua prima liturgia celebrata nella cattedrale di Aleppo, il 21 settembre, accolto dall’arcivescovo siro cattolico Gabriele Tappouni, poi patriarca e cardinale. Da quel momento Ubach s’immerse nella vita della Chiesa siro-occidentale: «La mia piena integrazione in questa tradizione avvenne con la celebrazione della messa siriaca e cercai di accelerare il mio inserimento nel clero della cattedrale siriaca di Baghdad. Celebravo ogni giorno la liturgia siriaca, poi mi ritiravo nella mia cella per pregare il breviario, e studiavo le antichità classiche del Paese, la sua storia, i suoi monumenti».I fatti drammatici di queste ultime settimane a Palmira e a Qaryatain, dove numerose famiglie siro-cattoliche sono state spietatamente sequestrate e poi in parte rilasciate, mi hanno scosso e riportato alla piena comunione con il martirio di tanti fratelli che in Medio oriente continuano, senza perdere mai la speranza, a testimoniare la croce di Cristo abbattuta dalle loro chiese, dai loro monasteri, ma non dai loro cuori. Sono momenti in cui la preghiera dei Salmi affiora nel cuore, con l’invocazione che osano rivolgere a Dio: «Fino a quando, Signore, continuerai a dimenticarmi? Fino a quando mi nasconderai il tuo volto?».
Negli ultimi giorni la barbara uccisione di Khaled Asaad, archeologo capo di Palmira, che si era rifiutato di consegnare i reperti archeologici più preziosi da lui nascosti, fa pensare a questa tradizione culturale, archeologica e letteraria: patrimonio dell’umanità ora trasformato in macerie da una mano che impunemente fa a pezzi più di tremila anni di storia. E all’inizio di agosto si è levata ancora una volta la voce del patriarca Ignazio Youssif III Younan, padre e pastore della Chiesa siro-occidentale cattolica, che ha ricordato i fatti accaduti alle famiglie cristiane di Qaryatain, denunciando ancora una volta quell’indifferenza con cui l’occidente guarda — o piuttosto non vuole guardare — il dramma dei cristiani perseguitati e uccisi, martiri nel Medio oriente.
La voce del patriarca è stata incisiva nel mostrare come non si tratti di pulizia etnica: «È una pulizia religiosa. Quella che i vostri governanti non vogliono vedere; non ne vogliono sapere niente! A loro importa poco delle libertà di queste comunità, che sono riuscite a sopravvivere proprio perché attaccate al loro Salvatore e al Vangelo. A Qaryatain erano rimaste circa trecento famiglie. E il loro parroco siro-cattolico, Jacques Murad, che è stato rapito, era nel convento di Mar Elian, dove accoglieva anche tanti musulmani e li aiutava». Sono le parole accorate di un vescovo per il suo popolo, parole che ci riportano al Vangelo di Cristo perché la carità non fa differenze di persone: «Accoglieva anche tanti musulmani e li aiutava».
Le immagini arrivate da Qaryatain hanno mostrato le ruspe che abbattevano le mura, le croci, le tombe del monastero di Mar Elian, demolendo impunemente la carità cristiana che tra quelle mura sante dimorava sin dal V secolo e fino a pochi giorni fa. Immagini strazianti che si sono innalzate come un’effimera vittoria per abbattere le mura e i tetti, ma soprattutto le preghiere, la vita, le sofferenze, le lacrime che attraverso i secoli — oltre millecinquecento anni — erano diventate il vero cemento che reggeva quel luogo santo.
«Un’altra chiesa, un altro monastero» potrebbe essere l’indifferente titolo della notizia sui media. Ma non si tratta di «un’altra chiesa», perché è la stessa Chiesa di Cristo, ortodossa o cattolica — siriaca, assira, caldea, copta, latina — a essere divenuta oggi martire. Una Chiesa che nel martirio rimane fedele al suo Salvatore e al suo Vangelo, fedele alla preghiera, anche per i propri nemici.
Il monaco Ubach scriveva nelle sue note: «Mi ritiravo nella mia cella per pregare il breviario». Ed era una preghiera intrecciata di testi biblici e patristici, nella presenza perseverante del Salterio, testo che con Gesù stesso nelle tradizioni di oriente e di occidente è divenuto preghiera cristiana e dei cristiani. Salmi di lode, quelli che ritroviamo nelle ore di preghiere dei cristiani siriaci, e salmi di pentimento, di sofferenza, di speranza.
E anche salmi in cui il cristiano chiede a Dio la fine del male e dell’empietà annidata in molti cuori: «Fino a quando, Signore, continuerai a dimenticarmi? Fino a quando mi nasconderai il tuo volto? Fino a quando su di me prevarrà il mio nemico? Libera la mia vita dalla loro violenza, dalle zanne dei leoni l’unico mio bene». Questa è oggi la preghiera di tanti cristiani, in oriente nella sofferenza, in occidente nella comunione anch’essa sofferente. Salda sempre nella parola di perdono che viene dal Vangelo, in quella fede che, vedendo la croce abbattuta dalle chiese e dai monasteri, sa che mai potrà essere sradicata dal cuore dei cristiani.
Redazione Papaboys (Fonte L’Osservatorio Romano/Manuel Nin)