A riprova di ciò, nel prosieguo dell’intervista, Paolo dice: “Ora è tutto più difficile: ci sono ragazzi che a tredici anni hanno il procuratore e lo sponsor tecnico, ci sono genitori convinti di avere in casa il nuovo Messi, e gli scaricano sulle spalle le loro aspettative”. E così scopri che i padri che non sanno dare regole chiare ai figli, che non sanno mettere ai figli paletti, che non sono per essi “principio di realtà”, sono spesso genitori repressi e scottati dalla vita. La crisi economica non ha toccato solo i nostri portafogli e le nostre scrivanie ma la nostra sicurezza personale, quella che investiamo nell’essere papà e mamma. Una generazione di genitori a cui è andata male, che magari adesso neppure ha la pensione, cerca un riscatto di fama e denaro a danno dei figli.
Per questo così di frequente le partite dei nostri tornei giovanili passano dalla cronaca sportiva alla cronaca nera. Quando siamo in piedi ai bordi del campo e nostro figlio gioca, non stiamo guardando la partita della squadra in cui nostro figlio fa sport ma guardiamo alla speranza di una rivalsa personale formato “calciatore campione in erba”. A leggere le parole di Paolo Maldini, si capisce che il padre Cesare non era solo uno che di soddisfazioni nella vita ne aveva mietute tante, ma era anche un uomo di cultura. Di quella vera e non libresca.
Quando diciamo che il calcio è uno sport che fa parte della nostra cultura, non dobbiamo dimenticare che la cultura, però, non si fa con i piedi. O, per lo meno, non solo. La cultura è propria dell’uomo e della sua maturità personale. “Vai a calcio se vai bene a scuola” non è stata la carota per far camminare il mulo ma buon cibo per un ragazzo che è diventato prima uomo e poi campione. Coi piedi buoni perché aveva la testa buona. Tanti nomi di illustri giocatori che non sono mai diventati dei veri campioni sono lì a dimostrare che, perché la vita ti sorrida, c’è bisogno di entrambi. E nessun elenco sarebbe esaustivo.
Di Don Mauro Leonardi
Articolo tratto da Metro
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