Leggiamo il Vangelo, e scopriamo che Gesù ha vissuto tutta la gamma di emozioni e di sentimenti che ogni uomo e donna può sperimentare. Rimaniamo sorpresi, colpiti, forse scandalizzati, forse consolati. ‘Sentire’ non è dunque sbagliato, e non è solo umano: è divino, proprio perché l’uomo-Dio ha sentito, ha vissuto la sua affettività con intensità e forza.
Viene da sussultare di stupore, allora, nel dirci che anche noi possiamo sentire senza… sentirci troppo in colpa! Rabbia, delusione, tristezza, paura… ma anche allegria, gioia, tenerezza, compassione sono esperienze umane che rendono vera la nostra vita, che colorano e riscaldano la nostra esistenza, che ci fanno essere stupendamente… normali, e per questo umanamente divini!
Ci vogliamo dare il permesso di sentire, di riconoscere, di ascoltare, di vivere le nostre emozioni e i nostri sentimenti alla maniera di Gesù. Proviamo a riflettere su quell’espressione straordinaria e tenerissima che forse da adolescenti abbiamo usato anche noi, o abbiamo tenuto timidamente nascosta nel nostro cuore perché la consideravamo troppo impegnativa per la nostra età: ‘ti amerò per sempre!’.
Roba da matti! ‘Ti amerò per sempre!’ Un adolescente, che prova una cotta per una coetanea (o viceversa), ‘sente’ di esprimere amore eterno! E lo fa con convinzione! Lo fa credendoci! Ci crede ‘adesso’, è vero, ma in fondo si proietta già anche nel futuro. A uno o a una che è innamorato perso è inutile dirgli: ‘ma guarda che poi passa… guarda che sei giovane… guarda qui, guarda là…’. Cosa vuoi che guardi? E’ innamorato perso! Ed è perso… nella sensazione dell’eterno!
Cosa significa questo? Significa che l’esperienza più passeggera e instabile della nostra interiorità, che è proprio il sorgere e il fluire di una emozione, porta in sé la traccia dell’eternità. Significa che proprio il soffio di un sentimento, che viene senza che lo decidiamo e se ne va senza che lo possiamo trattenere, nella sua ‘temporalità’, racchiude inconsciamente in sé un soffio più profondo e intimo… quello dello Spirito Santo, eterno Amore.
Insomma, ascoltando il linguaggio delle emozioni e dei sentimenti, riconosciamo paradossalmente che in noi è iscritta la legge di Dio, che noi siamo veramente fatti della Sua stessa pasta.
Ecco perché ci fa bene guardare a Gesù, alla sua umanità, e scoprire le sfumature e i dettagli di questa pasta, per non correre il rischio di appiccicarci pregiudizi e luoghi comuni, che poi ci fanno soltanto vivere più inibiti, più costretti, più prigionieri… non delle nostre emozioni, ma della nostra razionalità giudicante. Giudichiamo noi stessi, su parametri ricevuti dalla nostra educazione, dalla società, o dai colpi della vita. E di riflesso giudichiamo gli altri, perché escono dai cliché e dagli schemi con cui cerchiamo di incasellare la vita.
D’altro canto, non è nemmeno salutare gridare alla liberazione degli impulsi, e che ognuno agisca secondo ‘come mi sento al momento’. Immaginatevi quanti schiaffi volerebbero senza preavviso al primo scatto di rabbia, o quante situazioni imbarazzanti per strada, alla sola vista di qualcuno che ci piace. No, anche ‘le emozioni libere’ sono in realtà un inganno, una schiavitù, una ideologia.
Guardiamo allora a Gesù, per chiedergli e chiederci: ma allora, come è bene vivere questa traccia di infinito che è in noi, e che si chiama ‘emozione’? Come le hai vissute tu, caro Gesù?
Per essere più concreti – concreti come le emozioni, che si sentono nella carne! -, scegliamo una delle emozioni più belle, di quelle che ci piacerebbe provare un po’ più spesso, e che quando ci attraversa la pelle non la scordiamo più: la GIOIA!
Prima di entrare in profondità nel testo del Vangelo, chiediamo a noi stessi: noi, per che cosa gioiamo? Che cosa ci fa esultare? Un buon voto all’esame, l’incontro con una persona cara, uno splendido tramonto… A volte, forse, abbiamo scordato come si fa a gioire, e il nostro cuore sembra spento anche nei momenti in cui tutto va – apparentemente – bene. A volte anche un successo non fa scoppiare in noi quella sensazione di beatitudine che ci piacerebbe provare.
E Gesù? Sì, Gesù ha gioito! Quando? Ascoltiamo:
In quello stesso istante Gesù esultò nello Spirito Santo e disse: «Io ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, che hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, Padre, perché così a te è piaciuto. Ogni cosa mi è stata affidata dal Padre mio e nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare».
E volgendosi ai discepoli, in disparte, disse: «Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete. Vi dico che molti profeti e re hanno desiderato vedere ciò che voi vedete, ma non lo videro, e udire ciò che voi udite, ma non l’udirono».
(Luca 10,21-24)
La gioia ha riempito il cuore di Gesù fino a farlo addirittura esultare! Allora, se vogliamo essere perfetti come lui, ci chiediamo: che cosa fa gioire Gesù? E cosa se ne fa della sua gioia?
Gesù gioisce perché Dio Padre ha liberamente e volontariamente ‘nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le ha rivelate ai piccoli’. Gesù gioisce per una scelta del Padre. E gioisce ‘nello Spirito Santo’. Salta subito agli occhi, dunque, che Gesù non gioisce per una cosa ‘sua’, per un successo proprio, per un merito personale, per una conquista. Gesù gioisce per l’opera del Padre e nello Spirito. Cioè gioisce per l’agire di un altro, anzi dell’Altro. Gesù, dunque, manifesta in questo momento sublime la radice della propria gioia: Gesù gioisce perché è decentrato da se stesso, perché è preoccupato di ‘vedere’ l’altro, di ascoltare l’Altro, di gustare la vita che scorre dall’Uno all’altro (i giochi delle maiuscole non sono casuali). Comprendiamo dunque che la gioia perfetta – dell’Uomo perfetto – non viene dal concentrarsi su di sé, bensì dall’aprirsi all’altro. La gioia è autentica se è accolta, ricevuta, riconosciuta: come dono, dunque, come gratuità.
L’ottica è rivoluzionaria, controcorrente: a volte, infatti, ci viene proposta l’illusione di ‘partorire’ la nostra gioia a partire da noi stessi, da una esasperata quanto sfiancante attenzione a spremere al massimo i nostri talenti, a sfoderare il meglio delle nostre qualità, a raggiungere con le nostre forze i più alti obiettivi… Nulla di male, nel compiere il proprio dovere con impegno! Ma identificare la fonte della propria gioia negli esiti più o meno elevati, più o meno conformi alle nostre aspettative, più o meno calzanti con gli schemi concorrenziali della società odierna, è davvero efficace? Non sarà che, piuttosto che trovare la gioia, ci carichiamo di ulteriore ansia e senso di fallimento, non appena il voto è un millimetro inferiore a quanto sperato, o il volto dell’amato è meno luminoso del solito?
Gesù, invece, propone la via del decentramento, dell’apertura. E’ come se la gioia venisse da… fuori di sé; più esattamente, dall’accogliere un dono, anziché conquistare un traguardo. Non è facile da comprendere. Potrebbe sembrare che il Maestro voglia sminuire il valore e l’impegno del discepolo. Niente di più lontano dalla verità: non è infatti l’esperienza del dono ricevuto la migliore sorgente di energia per dare il meglio di sé, e gioirne infinitamente?
Facciamo un passo avanti. Questa apertura di Gesù abbraccia l’Onnipotente, il Padre e lo Spirito, ma coinvolge anche i più piccoli, i destinatari della rivelazione trinitaria. Gesù è stupito dalla scelta rivoluzionaria di Dio di manifestare ‘queste cose ai piccoli’. La gioia di Gesù nasce dalla capacità di contemplare i piccoli, gli umili, gli esclusi. Egli gioisce del successo dei deboli. Che bellezza! Questa esultanza di Gesù manifesta davvero dove sta il suo cuore, per chi batte: è come una madre che vede abbracciare il proprio figlio più fragile dal padre tornato da lontano, e nel suo cuore si commuove di contentezza.
Che tesoro indescrivibile, allora, sono i più piccoli, gli umili. Già, proprio coloro che tendenzialmente vengono messi da parte, all’ultimo posto, nella nostra società fatta a scale e gradini. Pensare che Gesù trova la propria gioia proprio frequentando chi nessuno frequenta ha qualcosa di affascinante. Chissà se ci può essere qualcosa di bello anche per noi, che ci attende negli ambienti e nelle relazioni con gli ‘sfigati’ della nostra città, della nostra università, del nostro giro di rapporti…
Ma quali sono ‘queste cose’ di cui parla Gesù? Nei versi precedenti a quelli letti egli invita i suoi discepoli, che si stanno rallegrando per i successi apostolici, a non gioire per questo, ma perché ‘i vostri nomi sono scritti nei cieli’ (Lc 10,20). Li invita, dunque, anche loro – e anche noi – a decentrarsi, a rivolgere lo sguardo verso l’alto, verso il Padre e a rendersi conto che Egli ha già operato prima di ogni altra azione la cosa più importante: li ha amati, ci ha amati, fino al punto da scrivere a caratteri indelebili i nostri nomi nel cuore del firmamento.
Eccole, le ‘cose’ che i piccoli hanno compreso già, e che i dotti e i sapienti, troppo impegnati a cercare la gioia nelle proprie conquiste razionali e nel proprio superbo conoscere, non riescono a cogliere fintantoché non alzano lo sguardo dal proprio ombelico: il Padre ci ama, gratis e prima! Questo fa gioire Gesù: il Padre ama i piccoli, e glielo ha manifestato!
‘Queste cose’ sono proprio da pazzi: forse anche per noi, nel frequentare i più deboli, ci attende il Cielo aperto per farci sperimentare che Dio ci ama gratis e prima? Forse anche per noi, nell’aprirci a una amicizia nuova, nell’accogliere l’amore che ci sorprende, nell’ascoltare la voce di chi abbiamo finora accantonato, è pronta l’opportunità di sentirci cercati e voluti bene senza condizioni? …davvero non c’è gioia più grande di questa!
Bene. E allora, di questa gioia, Gesù cosa se ne fa? E’ importante capirlo, serve anche a noi, per comprendere: quando gioiamo, cosa è bene fare? Ma anche, di riflesso: la vera gioia, come ci spinge a comportarci? Perché se non ci spinge a comportarci come Gesù, forse… non è vera gioia.
Vediamo un po’. L’esultanza nello Spirito è per Gesù una gioia da condividere. Così come l’ha ricevuta dal Padre e dallo Spirito, ‘decentrandosi’ verso i piccoli, allo stesso modo coinvolge i suoi discepoli nella stessa brezza di beatitudine. Ecco il segreto della gioia, ecco la misura della sua autenticità: la gioia vera ha bisogno di essere spartita, non può essere trattenuta. Si mette a servizio dell’altro, sospinge l’altro a godere della stessa felicità. E lo fa non in maniera rumorosa ed egocentrica, non in forma di esibizionismo o di spettacolo: Gesù, infatti, chiama ‘in disparte’ i suoi e li aiuta a rendersi conto della beatitudine che hanno ricevuto in dono. La gioia è intima: nasce accogliendo un dono donato, ma nasce dentro, in profondità. Non solo ‘a pelle’. Si tratta di scoprire questo tesoro nascosto nel campo della nostra umanità, della nostra piccolezza. Ecco, Gesù condivide la gioia con i suoi invitandoli a partecipare del mistero della piccolezza. Lì, lontano dagli occhi indiscreti di chi potrebbe recriminare una euforia apocalittica poco evangelica, Gesù chiama gli apostoli a farsi piccoli, o meglio, a rendersi conto di aver ricevuto in dono la grazia della ‘minorità’. Più che per i successi nella predicazione, Gesù condivide la gioia per ciò che gli occhi hanno visto e gli orecchi hanno udito: la potenza dell’amore del Padre.
A questo punto appare chiaro che il mistero della gioia in Gesù è un mistero di relazione. Di ascolto e di accoglienza. Con il Padre, con lo Spirito; con i piccoli; con le persone care; con se stesso. Nel voler bene, nel lasciarsi voler bene; nell’amicizia, nella fraternità, nell’innamorarsi; nel servizio, nel fare il proprio dovere. La gioia è ovunque, perchè, una volta accolta, è in noi. La gioia è dono ricevuto, che nasce da relazioni privilegiate nell’ottica della Trinità, che sceglie gli ultimi; ma ci si accorge improvvisamente che questo dono è già dentro di noi, come beatitudine desiderata e cercata prima chissà dove.
E’ l’esperienza dei santi: sant’Agostino la canta in maniera commovente e trepidante:
“Tardi ti ho amato, o Bellezza sempre antica e sempre nuova, tardi ti ho amato! Ed ecco tu eri dentro di me e io ero fuori e là ti cercavo ed io nella mia deformità mi gettavo sulle cose ben fatte che tu avevi creato.
Tu eri con me ed io non ero con te.
Quelle bellezze esteriori mi tenevano lontano da te e tuttavia se esse non fossero state in te non sarebbero affatto esistite. Tu mi hai chiamato e hai squarciato la mia sordità; tu hai brillato su di me e hai dissipato la mia cecità. Tu hai emanato la tua fragranza e io ho sentito il tuo profumo e ora ti bramo.
Ho gustato e ora ho fame e sete.
Tu mi hai toccato e io bramo la tua pace”.
E noi, da chi desideriamo farci toccare nella carne, per poter esultare di gioia?
di don Luca Garbinetto, pssg
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