La Giornata della Memoria. Dalle Br agli jihadisti: parlano le vittime del terrorismo

Oggi è il 37esimo anniversario dell’omicidio di Aldo Moro. Nel 2007 il Parlamento istituì il Giorno della memoria dedicato alle vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice.

Marco Conte ha 26 anni. Studia ingegneria ed è a due esami dalla laurea. Obiettivo che continua a perseguire, nonostante il 18 marzo suo padre Orazio sia stato ucciso e sua madre, Carolina Bottari, ferita nell’attacco jihadista che ha insanguinato Tunisi. «Quando un attentato come quello al museo del Bardo sconvolge la vita della tua famiglia, il contraccolpo è tremendo. Le istituzioni, a iniziare dal Comune di Torino, ci sono state vicine nell’immediato con sensibilità. Confido che quella vicinanza non si manifesti solo nelle cerimonie, ma che diventi concreta, quotidiana. Non solo un giorno all’anno, ma anche gli altri 364…». La madre ha intrapreso un percorso di cura, spiega Marco («Ha un tutore alla gamba e ne avrà per 9 mesi, poi inizierà con la fisioterapia») e la famiglia sta provando ad andare avanti, anche se «le necessità sono molte. E non parlo solo di un supporto economico, ma medico, legale, psicologico…».

Un’esperienza che accomuna la famiglia Conte ai parenti delle altre tre vittime italiane del Bardo, 

Francesco Caldara, Giuseppina Biella e Antonella Sesino, e a migliaia di altre famiglie. Solo tra il 1969 e il 1987, negli anni di piombo, c’è chi ha contato 14.591 atti di violenza politica, con 419 morti e 1.181 feriti. A quel computo vanno aggiunte decine di altri italiani colpiti in seguito, fino all’avvento del terrorismo jihadista, che ha portato il numero dei soli morti ad oltre 500.

Migliaia di persone nelle cui vite è piombato un evento lacerante. C’è chi si è rinchiuso in se stesso, chi ha provato a rimuovere, a volte senza riuscirci. E chi ha suturato faticosamente le ferite di fuori e quelle di dentro e da lì è ripartito per aiutare altre persone. I loro nomi e le loro storie sono in buona parte custoditi in due stanze di un edificio della provincia di Torino, che ospita la sede dell’Aiviter, l’associazione italiana vittime del terrorismo. Quando entriamo, alle 8.30, il segretario Bruno Diotti è lì già da un’ora, come sempre. Lascia per un attimo il telefono («Scusatemi, sto cercando di rintracciare i parenti di una vittima, per metterli al corrente di ciò che prevede la legge…») e si alza per riceverci. Nonostante i 74 anni e i segni permanenti di quattro colpi di pistola alle gambe sparatigli dai terroristi nel 1977, ha una tempra e una memoria di ferro: «Spesso chi subiva un attentato, se guariva non se la sentiva di tornare al lavoro precedente. Io lottai tornando alla normalità, al mio incarico di capo reparto. E lo feci, appoggiato dai miei familiari e dai vertici Fiat». 

Sulla scrivania, il signor Bruno ha una pila di fascicoli. Al suo fianco, c’è Renata Lombardo, impiegata della Provincia ‘in prestito’ per metà giornata. Le copertine sono una Spoon river del dolore: «Vede, ci sono i familiari di vittime degli anni Settanta, ma anche della strage di Nassiriya, delle bombe a Londra nel 2007 o di un attentato nella metropolitana russa, dove è stato ferito un italiano…». È lui che, dopo l’attentato del Bardo, ha preso contatti con la famiglia Conte e con le altre: «Sono andato al funerale. Vogliamo aiutarli ad affrontare le difficoltà che verranno». 

Fondata nel 1985 da Maurizio Puddu (consigliere provinciale Dc gambizzato dalle Br e suo presidente fino alla morte, nel 2007), l’Aiviter si batte a fianco di altre associazioni (come quelle per la strage di Bologna, via dei Georgofili o di Ustica) non solo per la ricerca della verità su autori e mandanti, ma soprattutto per la tutela dei diritti introdotti dalla legge quadro 206 del 2004, che riconosce benefici economici, fiscali, assistenziali e previdenziali a favore delle vittime del terrorismo e dei loro familiari. Un’assistenza, ricorda Diotti, indispensabile per fronteggiare problemi di ogni tipo: «Dalle cure mediche per chi è sopravvissuto, al sostegno economico per chi non potrà più tornare al lavoro o per i congiunti, fino all’assistenza legale nei processi e alle terapie per sanare ferite meno visibili, come il disturbo post traumatico da stress…». 

Molte famiglie non sanno di avere diritto ai benefici: «È accaduto anche a noi – racconta la 51enne Nadia Borello, figlia di Giuseppe, capo reparto della Fiat a Mirafiori, ferito nel 1976 e deceduto qualche anno fa –. Fu Diotti a rintracciarci, dopo molte ricerche, e a farcelo sapere». Mentre parliamo, squilla il telefono: è una signora campana, ferita in un attentato più di trent’anni fa, ha letto su Internet dell’associazione e chiede informazioni. I suoi diritti non scadranno, spiega la signora Renata, ma per istruire una pratica in prefettura serviranno tempo, certificati, visite mediche: «Gli enti coinvolti sono tanti: il ministero dell’Interno, l’Agenzia delle entrate, l’Inps, il ministero della Difesa se si tratta di militari colpiti o quello della Giustizia se sono magistrati».

L’Aiviter – rammenta Roberto Della Rocca, presidente facente funzioni dell’associazione, anch’egli gambizzato nel 1980 dalle Br – «si è battuta per far approvare quella legge in Parlamento. Da allora vigiliamo sulla sua corretta applicazione». E come va? Servirebbe un tagliando? «L’impianto regge. Ma ci sono ritardi insostenibili, perfino di anni, nella gestione delle pratiche da parte degli enti pensionistici come l’Inps. E pareri a volte incongrui delle commissioni ospedalieremilitari. Non può passare tanto tempo per veder riconosciuto un diritto: nella Legge di Stabilità 2015 ci sono norme ancora inapplicate. A volte, nel caso di persone gravemente invalide, mi viene l’amaro sospetto che lo Stato, o perlomeno una parte di esso, punti a tergiversare finché la persona muoia, per liberarsi del problema…».

di Vincenzo R. Spagnolo per Avvenire

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