La guerra nella tradizione islamica

Nel pensiero occidentale, la nozione di “guerra santa” è associata alla tradizione islamica e al suo linguaggio politico. Sin dalle origini, l’Islam è percepito come una religione militante e militarmente organizzata. I suoi seguaci sono visti come combattenti impegnati nella propagazione della fede e della legge, attraverso la forza delle armi. In alcune sure del Corano, possiamo notare questa tendenza al combattimento:

“Combattete coloro che non credono in Allah e nell’Ultimo Giorno, che non vietano quello che Allah e il Suo Messaggero hanno vietato, e quelli, tra la gente della Scrittura, che non scelgono la religione della verità, finché non versino umilmente il tributo, e siano soggiogati, (9, 29); E quando il tuo Signore ispirò agli angeli: invero sono con voi, rafforzate coloro che credono. Getterò il terrore nei cuori dei miscredenti, colpiteli tra il capo e collo, colpiteli su tutte le falangi! E ciò avvenne perché si erano separati da Allah e dal Suo Messaggero […] Non siete certo voi che li avete uccisi: è Allah che li ha uccisi […](8, 12-17)”.

Max Weber descrisse l’Islam come una religione animata da un’etica guerriera, da uno spirito di militanza attivo per la fede, che nel lungo periodo poneva in secondo piano l’attività mercantile e d’impresa. L’ideale ascetico supremo, nella visione islamica, non è rappresentato dal lavoro come professione ma, citando Weber: “dal monaco-guerriero che in nome della fede è pronto a sacrificare la propria vita, come martire”.

L’arabo classico non ha un’espressione equivalente a “guerra santa”. Esiste una parola per definire il termine “guerra”, (harb)

, e altre per definirne i diversi generi di conflitto. E’ presente un vocabolo per “santo”, (muqaddas), ricorrente in situazioni connotate in senso ebraico o cristiano, piuttosto che musulmano. In genere, nel mondo islamico, è diffusa la sacralizzazione dei luoghi, ma non lo è quella di persone viventi e di azioni umane. Parlare di “guerra santa” e di “legge santa” è in certa misura una distorsione semantica. Nel linguaggio occidentale l’aggettivo “santo”, che accompagna talora il sostantivo “legge”, deriva dal fatto che esistono altre leggi di altra origine. Nel linguaggio islamico un aggettivo del genere sarebbe pura tautologia. La Sharia è semplicemente la legge, e non ve ne sono altre. Essa è santa poiché deriva da Dio ed è espressione esteriore e immutabile dei comandamenti di Dio al genere umano.

Nel rispetto dei comandamenti di Dio si basa la nozione di guerra santa, nel senso di guerra ordinata da Dio. Il termine così tradotto è jihad. Questa parola deriva dalla radice araba j-h-d, che significa essenzialmente tentativo, sforzo. Alcuni sostengono che tale termine debba intendersi in senso morale o spirituale, piuttosto che militare. In epoca classica, tale posizione fu sostenuta da alcuni teologi sciiti e con maggior forza dai modernisti e riformisti nel XIX e XX secolo. La maggioranza dei teologi classici, dei giuristi e dei tradizionalisti ha sempre interpretato il senso di jihad

in termini militari. Nei testi classici è usata spesso col significato di scontro, battaglia, con la locuzione “lottare sul sentiero di Dio”, esprimendo un chiaro senso combattivo. Nei capitoli finali del Corano, promulgati a Medina, dove Maometto era a capo dello Stato e  dell’esercito, il significato di jihad è inequivocabile:

“Quei credenti che restano a casa, e non sono invalidi, non sono uguali a quelli che lottano sul sentiero di Dio coi loro beni e la loro persona. Dio ha posto quelli che lottano coi loro beni e la loro persona a un livello più alto di quelli che restano a casa. Dio ha promesso una ricompensa per tutti quelli che credono, ma Egli premia quelli che combattono, rispetto quelli che restano a casa, con una ricompensa maggiore, (9, 25)”. 

L’approccio combattivo, nella storia dell’Islam, nasce a seguito di un processo che determina la trasformazione del profeta da leader religioso e carismatico a capo politico. Muhammad perseguito ed espulso da Mecca, si trova a dover motivare i suoi discepoli, trasformandoli in monaci-guerrieri e a sostanziare la loro fede religiosa con una forma di tipo militare. Ha bisogno di fornirgli una forte motivazione religiosa e politica, perché potenzialmente chiamati a sacrificare la loro vita. Nelle comunità dell’Islam primitivo, l’urgenza di ricorrere alla violenza s’impone come un dovere davanti a Dio e come espressione di fede nei confronti della propria guida carismatica. E’ una prova di fedeltà e di fede, che getta un ponte tra la dimensione religiosa e quella politica: il regno della necessità e quello della contingenza. La prova della violenza fisica richiede uno sforzo morale: provare a se stessi, al proprio capo e a Dio che si è convinti del percorso intrapreso. In tal modo, l’uso della violenza non appare come una prepotente e istintiva manifestazione di vitalismo aggressivo dell’essere umano, bensì come una funzione sacra, come un dovere necessario imposto da un comandamento di Dio.

Nel corso della storia, l’ideologia, la strategia e le tattiche della jihad, divennero elementi costitutivi della letteratura e della giurisprudenza islamica. L’obbligo alla guerra santa è stato praticato sin dalle origini dell’Islam. Consiste sia nella guerra difensiva, quando cioè l’Islam è attaccato, sia in quella preventiva, quando il rischio di essere attaccati è imminente. Attraverso la jihad la comunità islamica, rifugiata a Medina, realizzò la sua espansione geografica mondiale creando una nuova civiltà. I teologi musulmani spiegano che la jihad è un dovere religioso collettivo (fardh kifaya), che impegna l’intera comunità (umma) e, in alcuni casi, ciascun individuo (far ‘al ‘ayn). di Severis

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