REINTEGRO O INDENNIZZO – La verità è che gli imprenditori possono quasi sempre licenziare senza grossi problemi, vedi la messa in mobilità di 900mila persone nel 2013. I licenziamenti individuali sono solo 8.000 e in 3.500 il giudice ordina il reintegro. Per non parlare di quei tre milioni e mezzo di lavoratori atipici, “licenziabili” con un paio di parole.
Ma di cosa stiamo parlando, quando ci accapigliamo per l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori? Sostanzialmente del nulla, com’è tipico di un Paese che si picca di discutere per anni di un gol annullato. Il reintegro del lavoratore licenziato nel suo posto è possibile – in base appunto alla legge – solo se assunto in aziende con più di 15 dipendenti. Più del 97 per cento delle imprese italiane ne ha meno, anche se il resto (105mila) dà lavoro a circa la metà dei dipendenti privati. E l’art. 18 prevede il reintegro nel caso di licenziamento in cui il giudice non ravvisi gli estremi di giusta causa o giustificato motivo.
Questa è la parte che lo Jobs Act del Governo intende modificare. Perché i licenziamenti discriminatori (per colpire un sindacalista o una lavoratrice incinta o per motivi razziali, tanto per dire) sono e saranno sempre illegittimi, e quindi è garantito il reintegro nel posto di lavoro. Che il lavoratore può in ogni caso barattare con un congruo indennizzo, dopo comunque essere stato indennizzato dei danni ricevuti dal licenziamento illegittimo.
Ma andiamo al dunque. Quanti licenziamenti individuali – sottolineiamo: individuali – sono stati sottoposti al giudice in un anno per una valutazione sull’applicabilità dell’art. 18? Ottomila sono quelli per cui non si trova un accordo tra le parti; in 3.500 casi il giudice ordina il reintegro (che poi non sempre avviene, per volontà del lavoratore).
Bene: quante sono state le persone coinvolte in licenziamenti collettivi nel corso del 2013? Sono state avviate procedure di mobilità per 900mila persone, in linea col dato 2012. È chiaramente un falso problema per gli imprenditori: possono quasi sempre licenziare senza grossi problemi, se non quello economico dato da indennizzi e buonuscite.
Nessuno che si prenda più di tanto la briga di sindacare se sia giusto o meno mandare a casa molti o tutti, per riaprire l’azienda oltreconfine. Ci guadagna (solo) l’imprenditore, ci perdono tutti.
Nessuno che vada a cavillare sulle centinaia di casi di “squali” che scremano la forza lavoro in un amen, riaprendo bottega un po’ più in là dietro qualche prestanome, rovinando tra l’altro tutti i fornitori e i creditori. Una scandalo immenso, che passa sotto silenzio dentro il file “tipica e spesso impunita furbizia italica”.
Nessuno che si agiti per il destino dei tre milioni e mezzo di lavoratori atipici, “licenziabili” con un paio di parole e nel corrispondente tempo per pronunciarle.
Quindi, di che stiamo parlando? Di fuffa, di una delle tante “armi di distrazione di massa”, di una divergenza di stampo ideologico nell’alveo di una stessa “famiglia” politica, di una clava agitata da entrambe le parti per assestare un colpo. Un mezzo con altri fini. L’abolizione del reintegro per motivi economici non scatenerà le assunzioni – finora non le bloccava -, né scatenerà la caccia al lavoratore assunto e indesiderato.
Oggidì si può assumere con grandissime facilitazioni fiscali e contributive, e non si assume; ci si può liberare di chi è assunto senza grandi difficoltà (salvo il pubblico impiego, che è un mondo a parte) e infatti c’è una copiosissima emorragia di posti. Perché il vero problema è il lavoro, non i lavoratori. di Nicola Salvagnin per Agensir