Infermiera, figlia, moglie, mamma. La lotta di una ragazza, Cristiana, che combatte con il sorriso la sua nemica più grande.
Vivo, perché la vita è qui e ora. Mi chiamo Cristiana. Sono infermiera al Bambino Gesù. Sono figlia, moglie, infermiera per passione. Perché il mio lavoro è prima di tutto una questione di sentimento. Mi prendo cura dei piccoli pazienti dell’ospedale come se fossero i miei bambini. E, soprattutto, sono la mamma di Angelo. Mio figlio pensa che io abbia la malattia del sorriso, perché rido sempre.
Invece no. Ho la sclerosi multipla.
Vivo, tra alti e bassi, tra i picchi che la malattia mi riserva, e le tregue che mi concede.
Mio figlio, insieme ai suoi compagni di classe, ha reinventato la malattia di sua mamma. La malattia del sorriso, è il modo con cui anche io, adesso, chiamo questa terribile compagna di vita. Sette anni insieme, lei e io. Una malattia che interessa il sistema nervoso centrale, con un decorso cronico. Non starò mai meglio. E’ una patologia irreversibile e degenerativa. Ma ho imparato a conoscerla e, per quanto possibile, a gestirla.
Vivo, perché mio figlio merita di avere accanto a sé una mamma felice.
Nel maggio del 2008 avevo 29 anni appena compiuti. Angelo a breve avrebbe soffiato la sua prima candelina. Ho iniziato a presentare difficoltà nel parlare. I medici in un primo momento hanno pensato potesse trattarsi di allergia alle fragole. L’esordio della malattia, invece, così violento, non ha lasciato molti dubbi sul fatto che si trattasse di qualcosa di grave. Unaemiparesi destra. Tutti pensavano, io compresa, che si trattasse di tumore al cervello. La risonanza, poi, ha sciolto i dubbi. Ero affetta da una sindrome demielinizzante, che decorre poi, in alcuni casi, come nel mio, in sclerosi multipla.
Vivo, perché la vita è una sola. E non posso permettermi di sprecarla.
Angelo, mio figlio, sa che io sono la sua mamma che gli sorride sempre. E’ una delle sue più grandi certezze. Non posso disilluderlo. Non posso tradirlo.
Non è stato facile gestire la prima ripresa senza lasciar trapelare nulla. Ero su una sedia a rotelle, non riuscivo a parlare, né a scrivere. Non vedevo più. Negli 8 mesi successivi all’esordio, ho reimparato a camminare, a parlare, a scrivere. E ho recuperato la vista. In tempo per vedere mio figlio muovere i suoi primi passi. Per essere la prima testimone dei progressi del mio piccolo uomo.
Vivo, perché non posso permettermi di sprecare nemmeno un giorno di vita.
Volevo tornare il prima possibile al lavoro. Volevo la mia normalità. Volevo ripristinare quell’equilibrio che avrebbe regalato serenità ad Angelo, e rassicurato me. E mi avrebbe donato di nuovo quel senso di pienezza che ti accompagna quando hai la certezza di essere utile a qualcuno. E, come prima, importante per quei bambini che hanno creduto e credono in me. E mi hanno sostenuta, senza saperlo. A Palidoro ho trovato la mia famiglia. Colleghi che sono, prima di tutto, amici, che mi sostengono durante i picchi più difficili della mia malattia.
Vivo, perché la vita è bella. E un giorno in cui non abbia donato e ricevuto un sorriso, è un giorno perso.
Con l’interferone riesco a gestire la malattia. A rallentarne il decorso. Sono innumerevoli gli effetti collaterali. I dolori a volte sono insopportabili. Spesso la stanchezza mi annienta. Non riesco a fare più cose insieme, o troppe attività nella stessa giornata. Il corpo mi chiede di riposare, dopo un po’. Per questo, nonostante avessi aspettative di continuare a lavorare nelle emergenze, in ospedale adesso lavoro in ambulatorio. Mi rendo conto che la vita dell’ambulatorio, per quanto frenetica, è più compatibile con la mia malattia. E mi riserva comunque delle grandi soddisfazioni.
Vivo, perché mio figlio è la cosa più bella del mondo. E la mia famiglia la mia forza.
Non avrei alcuna possibilità di combattere ogni giorno contro la sclerosi multipla, senza l’energia e l’amore che mi trasmette la mia famiglia d’origine. Senza il sostegno di mio marito Armando e senza gli occhi di mio figlio, che cercano i miei.
Vivo, perché l’unico modo che ho, per vincere, è vivere.
di Massimo Francini per Redazione Papaboys
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