Pubblicità
HomeNewsFamilia et MensLa maternità più alta è trasmettere l'amore di Dio. La storia 'santa'...

La maternità più alta è trasmettere l’amore di Dio. La storia ‘santa’ di Sara Foschi

«Maternità per me significa prendersi cura della vita che il Signore ti affida». Sara Foschi ha 37 anni, non è sposata e non è madre naturale. Ma è madre autentica di tanti figli che ha incontrato lungo la sua strada in Bangladesh. Una strada disseminata di molti “sì”. Sì alla vita.

Sì alla vita

I suoi sono tutti “figli” molto speciali, e per questo bisognosi di amore e cure altrettanto speciali. Sono bambini abbandonati, scartati o disprezzati. Spesso disabili e dunque doppiamente penalizzati: dall’handicap e dallo stigma. Due di loro, in particolare, sono diventati parte integrante della vita di Sara: Shibu, che aveva quasi due anni e pesava meno di due chili, segnato da pesante disabilità e grave malnutrizione. E poi Maruf, che ha un lieve ritardo mentale e un grande cuore. È diventato l’altro figlio, ma soprattutto il fratello che Shibu non ha mai avuto. Con loro due – e per rispondere a un bisogno di Shibu che rischiava la vita – Sara è tornata in Italia, dopo dodici anni in Bangladesh. Di nuovo nella sua città, Bellaria, nel Riminese. Con la sua piccola famiglia bangladese e con la famiglia d’origine. E tanti amici intorno. Oltre ai membri della Comunità Papa Giovanni XXIII di cui è entrata a far parte molti anni fa. Per continuare a vivere la sua speciale maternità.

«Attorno a Shibu si sono coagulate molte persone. Lui, che è il più fragile di tutti, ha un’energia vitale straordinaria. In un certo senso è missionario al contrario. Ha scombussolato l’esistenza di molti qui in Italia. In positivo!».

Quella di Sara è una vita che si intreccia alle vite degli altri. Sin dall’adolescenza quando vive una fase di ricerca, ma anche di ribellione. «Avevo tra i 16 e i 17 anni. Era una fase delicata anche a livello spirituale. Mi facevo delle domande: che senso ha la mia vita? Cosa cerco? Dove vado? Cercavo la felicità, certo, ma forse in modo sbagliato».

In quel periodo Sara incontra don Oreste Benzi, fondatore della Comunità Papa Giovanni XXIII. «Un innamorato di Dio e della vita – lo ricorda Sara -. Mi ha dato subito molta fiducia. E mi ha proposto di fare un’esperienza in missione. Non ero neppure maggiorenne, ma sono partita».

La destinazione non poteva essere più destabilizzante: l’India. «Un incontro dirompente con volti e sofferenze di altre persone. Potevo perdermi del tutto o ritrovarmi. Mi è andata bene. Perché quell’esperienza mi ha aiutata innanzitutto a relativizzare i miei problemi di adolescente. E soprattutto a guardare di nuovo a Dio come padre amorevole che mi prendeva per mano e mi faceva vedere il senso della vita e mi chiedeva di farlo vedere anche ad altre persone. L’incontro con il povero, con l’ultimo tra gli ultimi – così come è nello stile della comunità Papa Giovanni XXIII – è stato fondamentale per andare a Dio. Poi, però, mi sono resa conto che, senza Dio, con il povero non riesci a stare».

Questo toccare con mano la povertà più estrema è stata la molla che ha fatto scattare un cambiamento radicale nella vita di Sara. Sin da subito. In India, infatti, avrebbe dovuto rimanere per un’estate e ha finito per soggiornarvi un anno intero. «Stavo vivendo un momento molto forte – riflette -, che mi ha segnata molto. Al punto che, quando sono rientrata in Italia, ho concluso le scuole superiori e ho deciso di iniziare il “noviziato” all’interno della comunità per diventarne membro».

A quel tempo Sara comincia a sperimentare un modo nuovo di essere famiglia. Non quella fondata solo su legami di sangue, ma quella di persone che scelgono di aprirsi all’accoglienza. Fa l’esperienza di una casa-famiglia nel Riminese con adulti con problemi di tossicodipendenza o disagio psichico. Poi, a vent’anni, di nuovo la proposta di andare in missione. Nel cuore c’è ancora l’India, ma, per un problema di visti, viene mandata in Bangladesh, in una missione appena cominciata con poche strutture e molti bisogni.

«Mentre facevo il periodo di discernimento in Italia sentivo nel cuore una chiamata per la missione. Ero rassicurata dal fatto di tornare in Asia, ma non sapevo assolutamente nulla del Bangladesh. Sono partita sulla fiducia».

Era il Duemila e Sara arriva sola a Dacca, città tentacolare di 15 milioni di abitanti. Ma è solo un punto di passaggio. La destinazione finale è il villaggio di Chalna, nel profondo Sud del Bangladesh, dove invece non c’è nulla. «Come sono finita qui?», si chiede Sara. «Poi – ricorda con un sorriso – ho scoperto che la comunità Papa Giovanni era arrivata lì anche “per colpa” del Pime. I missionari avevano parlato di noi al vescovo di Khulna. Sapevano della nostra opzione per gli ultimi e hanno pensato che quello era il posto giusto per noi».




Già solo per arrivarci bisogna crederci davvero. Un viaggio lungo ed estenuante, strade dissestate, due fiumi da attraversare. A Chalna, padre Marino Rigon, saveriano, aveva appena terminato la chiesa e aveva lasciato il posto al primo parroco locale. Il contesto è di grande povertà e arretratezza, una manciata di cristiani, e una realtà drammatica – quella degli “intoccabili” – a cui la Papa Giovanni prova a dare qualche risposta in un clima culturale tutt’altro che aperto.

«Abbiamo iniziato ad occuparci soprattutto di loro – racconta Sara -. Erano davvero ai margini della società. I loro bambini non frequentavano neppure la scuola e c’era una divisione netta tra i fuori casta e tutti gli altri. Abbiamo lavorato molto su questo. Dopodiché ci siamo focalizzati sui disabili, molti dei quali “intoccabili” e dunque ancora più “ultimi”».

A quel tempo, la comunità era formata da tre italiani, tra cui Franca Mencarelli che è ancora lì ed è responsabile della zona Asia della comunità Papa Giovanni XXIII. Poi, un po’ alla volta, si sono aggiunti fratelli e sorelle bangladesi. «Subito mi sono occupata di accoglienza di bambini che venivano da situazioni familiari molto disagiate – racconta -. Alcuni erano orfani, altri venivano dalla strada o ci erano inviati dalle suore di Madre Teresa perché non adottabili. Alcuni erano molto piccoli». In questa accoglienza Sara sente crescere dentro di sé la chiamata a rimanere. L’incontro e il legame con quei bambini, così piccoli e dalle fragilità molto grandi, la spingono a pronunciare un altro “sì”. «Eccomi! Resto!».

«Quei bambini avevano bisogno di sentirsi scelti e accompagnati in maniera stabile. Vivevano con noi in uno spirito di famiglia. Era quello che dava il senso più profondo anche al nostro essere lì».

Poi, col tempo, si è strutturato maggiormente anche l’aspetto più progettuale. Sono stati creati un asilo e un doposcuola per circa seicento bambini con una mensa che prepara più di mille pasti al giorno. In campo sanitario sono stati aperti un ambulatorio e un centro di fisioterapia e si è cominciato a formare personale locale. «Inoltre – aggiunge Sara – ci siamo progressivamente specializzati in psichiatria perché sul posto non c’era nessun medico preparato. Sempre, però, abbiamo realizzato i progetti partendo dalla vita. La chiamata dei poveri più vicini ci ha spronati a dare risposte anche a tutti gli altri». Risposte concrete, ma non solo. Perché la malattia mentale e la disabilità rappresentano non solo un problema fisico, ma culturale. Le persone che ne soffrono sono ancora fortemente segnate dallo stigma e dal pregiudizio. Inoltre, i farmaci hanno costi proibitivi per famiglie spesso estremamente povere che da sole non riescono a sopportare il carico economico e sociale di una persona malata in casa. Le strutture mediche poi sono molto carenti e difficilmente raggiungibili.

Intanto, anche in casa, la famiglia continuava ad allargarsi: dai 12 ai 15 bambini di varie età. «L’incontro con un piccolo di tre anni e mezzo – continua Sara – è stato determinante per spingermi a garantire la fedeltà che quel tipo di rapporto richiedeva. Di conseguenza, questo è divenuto naturale anche per tutti gli altri». Poi è arrivato Shibu. La sua famiglia non era più in grado di seguirlo e la sua vita era a rischio: «Era il più fragile, ma il suo spirito era molto forte, si aggrappava alla vita. Ha portato sia me che gli altri a lottare per lui e con lui. Questo mi ha spinto a dare ancora più stabilità alla mia presenza».

Certo non è stato tutto facile. Lei, donna, giovane, straniera, cristiana… Tutto giocava a suo sfavore. E poi l’inesperienza a fronte di responsabilità enormi. «Certi passaggi – ammette – spaventano. Se non hai una motivazione forte e un accompagnamento che ti può venire solo dalla fede, rischi di venire schiacciato. Io, fortunatamente, ho avuto la possibilità di vivere quell’esperienza e quella responsabilità come un dono, perché l’ho fatto all’interno di una comunità e di un cammino di fede».

Infine è arrivato anche Maruf , un bambino di strada, non molto bravo nello studio, ma attento e di cuore che si è molto legato a Shibu. Oggi, anche se di caste e religioni diverse, sono come fratelli tra di loro e come figli per Sara.

«Mi considerano la loro madre e io con loro ho vissuto autenticamente l’esperienza della maternità. Lo stesso con tutti quelli che ho dovuto lasciare a Chalna. Non è stato facile venire via. Mi sono messa nelle mani del Signore. E sono tornata in Italia per rispondere un’altra volta alle esigenze di Shibu, del più debole di tutti. In ospedale in Bangladesh ha rischiato più volte la vita. Non era scontato che andasse bene qui in Italia. Ma ce l’ha fatta di nuovo!».

Shibu è stato sottoposto a un intervento molto delicato. Poi, con Sara e Maruf è tornato a Bellaria, dove la famiglia di origine di Sara si è molto coinvolta nel supportare questi due “nipoti” che oggi hanno 18 e 25 anni. Shibu ha imparato bene l’italiano, frequenta le scuole superiori e fa grandi progressi dal punto di vista cognitivo. Intanto, anche i bambini lasciati in Bangladesh sono cresciuti. Alcuni si sono già sposati e hanno avuto dei figli. E Sara si stupisce nel sentirsi, in un certo senso, già nonna.

«Tutto questo – riflette – fa parte di quel “cento volte tanto” che va al di là di quello che uno può immaginare. Quando ho detto dei “sì” – “sì” alla missione, ma soprattutto “sì” alla comunità – poi mi è davvero tornato cento volte tanto. La ricchezza della famiglia, dei figli, di altre madri, padri, fratelli… Considero la mia vita davvero molto ricca!».

Oggi Sara si occupa, oltre che della sua speciale famiglia, anche dell’animazione missionaria per la Comunità Papa Giovanni XXIII, preparando i giovani che sono in partenza. Segue anche le adozioni a distanza e lavora sui temi dell’immigrazione. Il Bangladesh e la sua gente, però, sono sempre nel suo cuore. Compresi i missionari del Pime che sono stati per lei un riferimento e un sostegno soprattutto durante i periodi a Dacca. Sara ricorda volentieri fratel Lucio Beninati e i suoi bambini di strada, i padri Carlo Dotti e Francesco Rapacioli che hanno lavorato molto per il dialogo interreligioso; Paolo Ballan, il suo parroco in capitale. Ma anche altri padri come Franco Cagnasso, Gian Paolo Gualzetti, Quirico Martinelli… «Tutte persone che hanno lasciato un segno profondo dentro di me e nella mia vita. Perché pure loro mi hanno confermato che vale sempre la pena dire “sì”».




Fonte iltimone.org

SCRIVI UNA RISPOSTA

Scrivi il commento
Inserisci il tuo nome