Categorie: Caritas et Veritas

La memoria dei cristiani nascosti

Due chiese dell’isola di Goto candidate a patrimonio dell’Unesco ·

L’ha battezzato col nome di Francesco in onore del Pontefice. Ha solo un anno di vita. Vanno sempre a pesca insieme. Ma Francesco non è suo figlio. Però è come se lo fosse. Francesco è il nome di un piccolo motoscafo, non un motoscafo qualunque: è quello di uno degli ultimi eredi dei cristiani nascosti giapponesi.

Siamo in un porticciolo sull’isola di Narushima, dell’arcipelago delle isole Goto. Se si esclude Okinawa, le isole di Goto rappresentano la parte più a ovest del Giappone, oltre c’è solo la Cina. Lui si chiama Kakimori, ha sessantacinque anni, e in barca va a pesca di sgombri, «alla griglia però, qui niente sushi!».

Su quest’isola, ancora una decina di anni fa, la pesca era un’attività prolifica. Poi, complici il depauperamento ittico e il riscaldamento delle acque, i pescatori hanno ripiegato le reti e sono emigrati a Nagasaki alla ricerca di un lavoro più redditizio. Nagasaki dista quasi tre ore di aliscafo, un’eternità. Con lo stesso aliscafo, in tre ore da qui si arriva in Corea.

I primi cristiani delle isole di Goto erano autoctoni, vennero battezzati dal medico Louis Almeida sul finire del Cinquecento, circa duemila persone. Poi dal feudo di Satsuma (attuale provincia di Nagasaki) altri cristiani emigrarono qui attratti dalla prospettiva di nuove terre da coltivare. «La sorpresa fu che da coltivare c’era rimasto ben poco!» mi dice Kakimori mentre ci allontaniamo dal porticciolo. Lui è l’erede di quei cristiani nascosti che arrivarono qui sul finire del Settecento alla conquista del loro ovest. A quel tempo, infatti, la persecuzione da parte delle autorità giapponesi non consentiva di praticare apertamente la fede cristiana.

Sette anni fa Kakimori ha deciso che la sua missione sarebbe stata quella di riappropriarsi della memoria dei cristiani nascosti. Cominciò restaurando la vecchia casa dei nonni, che erano dei kakure kirishitan (cristiani nascosti), e dove da almeno quarant’anni non viveva più nessuno. Ed è lì che siamo diretti.

Prima però visitiamo la chiesa di Egami, la cui sua storia risale al 1881. È qui che quattro famiglie furono battezzate quando la libertà di culto venne di nuovo garantita, durante la turbolenta stagione politica del post-shogunato. Kakimori racconta che tra i cristiani nascosti di quest’isola e i primi missionari che giunsero, ovvero quelli della Società per le missioni estere di Parigi, non fu amore a prima vista.

«I missionari, almeno su quest’isola — afferma — mostrarono una certa fretta di ribattezzare tutti senza considerare che dopo due secoli e mezzo avevamo ormai maturato una nostra cultura religiosa che non poteva essere annullata di colpo semplicemente applicando dell’acqua sulla fronte». Fu così che parte della comunità accolse gli insegnamenti dei missionari, mentre la maggioranza scelse di mantenere la tradizione dei propri antenati.

L’attuale edificio della chiesa di Egami venne costruito dalla povera comunità locale solo nel 1917, grazie alla vendita delle reti da pesca che fabbricava. La chiesa e un altro edificio di culto sono candidati a diventare patrimonio dell’Unesco.
Fonte. L’osservatore romano

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