Categorie: Pax et Justitia

La Nigeria contro Boko Haram

Providence tiene per mano la mamma, mentre il militare le passa il metal detector attorno al vestitino a fiori. «Misure di sicurezza» spiega l’uomo, visibilmente imbarazzato, all’ingresso di un affollato centro commerciale di Abuja, capitale amministrativa della Nigeria. «Nel Nord-Est del Paese usano bambine di questa età per compiere attentati si giustifica – le imbottiscono di esplosivo e le fanno saltare in aria.

La guerra è sempre più cruenta. E quelli di Boko Haram stanno reagendo all’offensiva lanciata dal nuovo presidente Muhammadu Buhari». Buhari contro Boko Haram. La sfida che vale un Continente. Per le strade di Abuja non si parla d’altro. Da un lato c’è il neo capo di Stato musulmano. Dall’altra i jihadisti dell’’Occidente proibito’ che, negli ultimi sei anni, hanno insegnato ai nigeriani a convivere con il terrore. «Il pericolo è ovunque – testimonia Mariah, mentre la piccola Providence le si appende alle gonne – in Chiesa, in autobus, al mercato. Buhari promette che entro la fine del 2015 Boko Haram verrà sconfitto. Ma intanto in Nigeria si continua a morire».

Dall’insediamento del nuovo capo di Stato, lo scorso 29 maggio, gli uomini di Abubakar Shekau hanno ucciso quasi un migliaio di civili. E si stima che almeno 800mila siano gli sfollati in fuga. È guerra aperta. L’esercito di Buhari intensifica la repressione. Boko Haram risponde colpo su colpo, con rappresaglie sui civili. Specie se cristiani. A fine luglio, in un villaggio al confine con il Ciad, una ventina di pescatori vengono decapitati. «Li hanno crivellati di colpi e poi mutilati – le parole dell’unico superstite – perché seguivano Isa (Gesù, alla lettera del Corano, n.d.r.), il profeta che ha corrotto il mondo». Poche ore dopo, le forze armate di N’Djamena annunciano di aver ucciso 117 miliziani in fuga dalla Nigeria. Una sacca di resistenza che si estende tutt’attorno al lago Ciad, laddove si incontrano i confini di Nigeria, Niger, Camerun e dello Stato che prende il nome dal bacino. Ad agosto, l’esercito nigeriano libera 270 ostaggi, in maggioranza donne e bambini, che i jihadisti avevano sequestrato nelle zone di Aulari, Dikwa e Konduga, nello Stato Nord-orientale di Borno. Alla metà del mese, Boko Haram torna ad uccidere a Kukuwa Gari, nel limitrofo Stato di Yobe. Altri 150 morti. Gli ultimi attacchi portano la data di inizio settembre, nei villaggi di Kolori e Ba’ana Imam, sempre nello Stato di Borno. Qui i sopravvissuti raccontano di assaltatori giunti a cavallo. Una stranezza che potrebbe rivelare un’inedita alleanza con i miliziani janjawid,

i “diavoli a cavallo” sudanesi e ciadiani, appartenenti alle tribù nomadi Baggara. Il tutto mentre a Sirte, il franchisee libico dell’Isis annuncia l’arrivo di 200 combattenti di Boko Haram. Il disinvolto interscambio di contingenti dell’internazionale jihadista.
«L’esercito nigeriano è allo sbando» testimonia Joe Ekong, giovane studente cristiano fuggito mesi fa da Maiduguri, una delle città del Nord-Est più funestate dagli attacchi jihadisti. Oggi vive ad Abuja, dove si guadagna da vivere lustrando scarpe. «Dall’inizio di quest’anno spiega – oltre 4mila soldati hanno disertato. Non hanno le


armi, né i mezzi necessari per respingere gli islamisti, che sono sempre meglio equipaggiati dell’esercito regolare.
Buhari sta tentando di fare qualcosa, coinvolgendo anche i Paesi confinanti». Non a caso i suoi primi viaggi diplomatici hanno come mete il Camerun e il Benin. Con il presidente camerunense Paul Biya, Buhari stringe un accordo per rafforzare i controlli lungo le frontiere che separano i due Paesi. A Cotonou ottiene 800 soldati in più da inserire nella rinnovata Mnjtf, la task force internazionale congiunta anti Boko Haram. Dall’inizio di agosto il quartier generale passa a N’Djamena, in Ciad e il comando delle operazioni viene affidato all’esperto generale Iliya Abbah, che ora conta su quasi 9mila uomini, tra militari, poliziotti e civili, messi a disposizione da Nigeria, Camerun, Ciad, Niger, Togo e
Benin. «Il fenomeno Boko Haram è stato troppo sottovalutato finora – spiega il professor Suleiman Mohamed, docente di sociologia militare all’Università di Abuja – i vecchi governi non lo hanno combattuto adeguatamente. È stato permesso ai jihadisti di seminare il terrore anche in Ciad, in Niger, nel Benin e nel sud del Camerun, dove hanno preso le città di Maroua e Fotokol.
Buhari vincerà se riuscirà ad eliminare questa paura. Mi aspetto che faccia del suo meglio per combattere la corruzione dilagante in questo Paese. Di cui Boko Haram è un prodotto».
Settantadue anni da Katsina, al confine con il Ciad, Buhari impersona l’identikit del generale di ferro. Ministro degli affari petroliferi, sotto la dittatura di Olusegun Obasanjo negli anni Settanta, il Paese lo ha guidato a sua volta, come dittatore militare, tra il 1984 e il 1985, dopo il golpe del 1983 contro Shehu Shagari. «Mise in carcere oppositori e giornalisti, persino cantanti, come il celebre Fela Kuti – ricorda Obi Sunia, che all’epoca lavorava come giornalista per il Nigerian Tribune – chi ha qualche capello bianco in testa, se lo ricorda per aver introdotto a suon di scudisciate la cultura delle file ordinate alle fermate degli autobus e per le umiliazioni imposte a chi si recava tardi sul posto di lavoro». I nigeriani lo hanno votato in massa, alla fine di marzo, preferendolo all’ex presidente cristiano in carica Goodluck Jonathan, che si era imposto su di lui nel 2011. Quindici milioni e mezzo di voti, contro i poco più di tredici milioni ottenuti da Jonathan, in un paese che di abitanti ne conta 170 milioni. Una vittoria storica. La prima affermazione delle opposizioni sul partito di governo, ilPeople’s Democratic Party,in carica ininterrottamente dalla fine del regime militare, nel 1999.
«Le elezioni sono state importanti – dice il professor Oladipo Fashina, docente di Filosofia all’Università Ahmadu Bello di Zaria – hanno per la prima volta evidenziato il potere dell’elettorato: chi non governa bene può essere mandato a casa. E non dai militari. Tuttavia Buhari è un ex militare, questa è la sua origine. Non è certo un socialista, semmai un nazionalista. Sarà interessante capire la sua politica economica per contrastare la deriva sociale in atto in Nigeria».
Un Paese ancora spaccato a metà, tra il Nord povero e musulmano e il sud trainante e cristiano. «Il 60 per cento della popolazione è disoccupato – testimonia Lakunle Oluwaseun Ibrahim studente di criminologia all’Università di Abuja – oltre 100 milioni di persone vivono in estrema povertà. Abuja è una capitale ricca, ma il resto del Paese soffre. Criminalità diffusa, prostituzione giovanile. E poi i blackout elettrici continui e le code per il carburante».
Anche su questo Buhari promette il pugno di ferro. «Dei due milioni di barili di greggio estratti ogni giorno in Nigeria, oltre 250mila vengono rubati – la denuncia del presidente – si tratta del 10 per cento della produzione nazionale di petrolio. Il principale bene di esportazione, in grado di assicurare il 70 per cento delle entrate dello Stato.
Posso garantire che troveremo il denaro e i responsabili».
Nel frattempo, la Nigerian National Petroleum Corporation, la compagnia petrolifera di Stato, ha annunciato la riapertura delle raffinerie del Paese a Kaduna, Port Hartcourt e Warri. «È la politica dei piccoli passi – osserva ancora Obi Sunia – oggi nessuno ricorda più il dittatore degli anni Ottanta o il Buhari che solo dieci anni fa si espresse a favore della sharia nel Nord del Paese, salvo poi convertirsi alla libertà di culto. Sta dimostrando di essere un uomo profondamente cambiato. E i nigeriani con lui».

Redazione Papaboys (Fonte www.avvenire.it/Gilberto Mastromatteo)

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