Categorie: Ethica et Oeconomia

La Pasqua deve aspettare; prima andiamo sotto la Croce

Siete pronti per la Pasqua? Spero di no. Lasciatemi spiegare. Se per “pronti per la Pasqua” intendiamo: Sono stanco della Quaresima e non vedo l’ora di tornare a tutte le cose a cui ho rinunciato nel periodo quaresimale; La Quaresima è deprimente e non vedo l’ora di ascoltare qualche “alleluia” (anche se in genere non dico “alleluia” in altri periodi dell’anno);Non vedo l’ora di ascoltare qualche inno diverso da quelli un po’ tristi che ho sentito in queste settimane; Sono stanco di dovermi sentire peccatore come si fa in Quaresima (fondamentalmente sono una brava persona), e non vedo l’ora di ricevere dalla Pasqua il permesso di sentirmi nuovamente bene con me stesso.

Se è questo che intendiamo con “pronti per la Pasqua”, allora, caro Dio, spero che nessuno di noi sia pronto per la Pasqua!

Insito nella nostra natura umana caduta c’è il desiderio di ottenere qualcosa dal nulla (o almeno al minor costo possibile). In questo caso vogliamo la gioia della Pasqua senza una Quaresima che condivida la Passione e la Morte di Cristo. San Cirillo di Gerusalemme ci mette in guardia contro questa tentazione. Istruendo i catecumeni, scrive: “Il dragone siede sul lato della strada guardando chi passa. Fate attenzione a non farvi divorare. Andiamo dal Padre delle Anime, ma è necessario passare accanto al dragone”.

Il modo più sicuro per superare il dragone è la via della croce, che è proprio quello che non vogliamo. Nella nostra debolezza, ci diciamo che vogliamo il mistero e la realtà della Quaresima e la gloria e la gioia della Pasqua, ma più spesso quello che vogliamo (e mi guardo allo specchio mentre lo scrivo) è il senso di dolore della Quaresima seguito dal senso di gioia della Pasqua. Fingiamo di essere addolorati per il fatto di essere peccatori e poi fingiamo di provare gioia per il fatto di essere stati salvati. Non è un vero sentimento, ma puro sentimentalismo.

L’autrice Flannery O’Connor ci mette in guardia molto chiaramente da questi sentimenti:

Con la caduta abbiamo perso l’innocenza e il nostro ritorno a quello stato avviene attraverso al Redenzione, determinata dalla morte di Cristo e dal nostro lento parteciparvi. La sentimentalità, saltando a pié pari questo processo nella sua realtà concreta, è un approdo prematuro ad un illusorio stato di innocenza che evoca fortemente il suo contrario. (…) In questa pietà popolare si guadagna in sensibilità e si perde in visione. Se sentivano meno, altre epoche vedevano di più, anche se vedevano con l’occhio cieco, profetico, insensibile dell’accettazione, vale a dire della fede. Ora in assenza di questa fede siamo governati dalla tenerezza. Una tenerezza che da tempo, staccata dalla persona di Cristo, è avvolta nella teoria. Quando la tenerezza è separata dalla sorgente della tenerezza, la sua logica conseguenza è il terrore. Finisce nei campi di lavoro forzato e nei fumi delle camere a gas.

In altre parole, quando optiamo per Cristo senza la croce finiamo per avere la croce senza Cristo. Non bastano dolore e gioia sentimentali per entrare nei misteri salvifici della Quaresima e della Pasqua, e non basta osservare da lontano la passione, morte, sepoltura e resurrezione di Cristo. Cristo ci chiama a unirci a lui nella sua sofferenza, nella sua morte e nella sua resurrezione. Monsignor Romano Guardini riassume brevemente questa chiamata:

Ogni cristiano un giorno raggiunge il punto in cui dev’essere anche lui pronto ad accompagnare il Maestro nella distruzione e nell’oblio: in quello che il mondo considera pazzo, che per la sua comprensione è incomprensibile, che per il suo sentire è intollerabile… questo è il test decisivo del suo cristianesimo. Si tirerà indietro davanti alle profondità ultime o sarà capace di andare avanti e guadagnare così la sua parte della vita di Cristo? È per questo che cerchiamo di annacquarlo… Ma essere cristiani significa partecipare alla vita di Cristo – tutta; solo la totalità dà pace… In un modo o nell’altro dobbiamo sfiorare le profondità in cui Cristo è divinamente crollato (…) Da questa comprensione senza riserve della volontà del Padre deriva la pace sconfinata di Cristo, anche per noi.

Questo è il terrore di cui non osiamo parlare in modo irriverente. So che mentre scrivo queste cose “invito” il giudizio di Dio – stando qui a mio agio, ben nutrito, in un edificio dotato di elettricità, acqua corrente e aria condizionata. Scrivo questo senza aspettarmi che qualcuno prima o poi butti giù la porta e mi tagli la testa perché sono cristiano. Ad ogni modo, come persona incaricata di predicare il Vangelo, devo dirlo: non ci può essere un’autentica gioia pasquale per chi non si è sottoposto a qualche tipo di morte in unione con Cristo. Perché la proclamazione e la celebrazione della Pasqua non siano vane bisogna sottoporsi a qualche perdita irreparabile, qualche sacrificio irreversibile, qualche amara resa o qualche offerta di sé che cambia la vita, a imitazione di Cristo e in unione con lui.

Il nostro discepolato, la nostra testimonianza e la nostra adorazione saranno meri sentimenti se non assomigliamo in qualche modo a Cristo nelle sue ferite. È naturale tirarsi indietro di fronte a una prospettiva di questo tipo. “È terribile cadere nelle mani del Dio vivente!” (Ebrei 10, 31). Ma come possiamo affrontare Dio o noi stessi se rifuggiamo la piena e vera unione con Cristo? Cristo merita sicuramente che il nostro discepolato sia più di semplici buone intenzioni, che la nostra testimonianza sia più di slogan convinti, che la nostra adorazione sia più di un autocompiacimento entusiasta. Giorno dopo giorno in un “martirio bianco” o tutt’a un tratto in un “martirio rosso”, i cristiani conosceranno la verità della Pasqua – il suo pieno potere e la sua gioia – solo quando assumeranno la morte all’egoismo e il rifiuto della disobbedienza umana che Cristo stesso ha raggiunto sulla croce.

In concreto, cosa possiamo fare tra ora e la domenica di Pasqua? Possiamo imitare Sant’Ignazio di Loyola e pregare “Mettimi vicino a tuo Figlio”. Sulla croce, nella tomba, nelle mani e nel cuore del nostro Padre celeste, dobbiamo stare vicino a Cristo. Portiamo un peccato a cui dobbiamo rinunciare (qualche vizio, qualche idolo) e un dono che possa essere offerto in adorazione (lode, obbedienza). Il nostro Padre celeste non sprecherà nulla di ciò che gli offriamo in unione con Cristo.

Padre Robert McTeigue, S.J. è membro della provincia del Maryland della Compagnia di Gesù. Docente di Filosofia e Teologia, ha una lunga esperienza in direzione spirituale, ministero di ritiri e formazione religiosa. Insegna Filosofia presso la Ave Maria University ad Ave Maria, Florida, ed è noto per le sue lezioni di Retorica ed Etica Medica.


Redazione Papaboys (Fonte it.aleteia.org)

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