Speranze e ancora tante incognite animano la comunità cristiana del nord dell’Iraq, nel quinto anniversario della sua cacciata dai villaggi nella Piana di Ninive, culla del cristianesimo iracheno. L’articolo è tratto da Vatican News – di Marco Guerra.
Nella notte tra il 6 e il 7 agosto 2014 oltre 120mila cristiani furono costretti ad abbandonare le proprie case per sfuggire alle violenze del sedicente Stato islamico. La regione di Ninive è stata riconquistata dall’esercito tra il dicembre del 2016 e l’inizio del 2017. Il rientro delle comunità sfollate è iniziato l’autunno successivo.
Durante gli oltre tre anni di esilio forzato gran parte dei cristiani hanno trovato rifugio nel Kurdistan iracheno mentre altre migliaia di famiglie hanno invece lasciato il Paese, alimentando il drammatico declino demografico dei cristiani dal Medio Oriente. In Iraq prima della guerra del 2003 innescata dagli Stati Uniti, vivevano almeno 1,4 milioni di cristiani. Oggi ne rimangono meno di 250mila.
Negli stessi mesi dell’estate del 2014 i jihadisti dell’Is colpivano anche la minoranza degli yazidi. Il bilancio delle violenze fu di novemila persone uccise o sequestrate e a cinque anni di distanza ancora è ignota la sorte di ben tremila persone. “Migliaia di yazidi innocenti sono stati uccisi e migliaia ridotti in schiavitù, i dispersi sono 3.000. Abbiamo perso tutto, ma non abbiamo mai mollato. Gli yazidi sono più forti dell’ideologia malvagia dell’Isis che voleva distruggerci“, ha scritto su Twitter Nadia Murad, sopravvissuta alla barbarie jihadista e che lo scorso anno ha ricevuto il Premio Nobel per la Pace.
Intanto, grazie al sostegno della fondazione di diritto pontificio Aiuto alla Chiesa che soffre e di alcuni Paesi occidentali, nella Piana di Ninive prosegue la ricostruzione dei villaggi cristiani. Al momento, oltre il 46% delle famiglie originarie della regione hanno fatto ritorno alle proprie abitazioni, per un totale di 41.365 persone. Le proprietà ricostruite sono circa 6700 su un totale di 14mila alloggi danneggiati o distrutti. Molto lontano è invece il ritorno alla normalità a Mosul, dove dei 15 mila cristiani che vivevano in città prima dell’arrivo dell’Is nel 2014 ne sono rientrati soltanto poche decine.
Per saperne di più sullo stato della ricostruzione e sulle necessità della comunità cristiana, abbiamo parlato con don Paolo Thabit Mekko, sacerdote del villaggio di Karamles:
R. – Ricordo che quei giorni c’era molta confusione, perché non sapevamo cosa sarebbe accaduto. Siamo stati cacciati e abbiamo lasciato la zona, costretti a fuggire in Kurdistan, dove abbiamo passato tre, quattro anni. Oggi ci sono ancora tante sfide: ci sono problemi legati alle milizie, ai check point che si trovano tra le città di Mosul e Erbil. Tutte queste cose gettano un’ombra, creano ansie nei cristiani che stanno aspettando cosa accadrà, quando questo problema della sicurezza verrà risolto.
R. – La ricostruzione di case, di chiese, è arrivata al 40 per cento. Ancora ci sono i segni della rovina. Ci sono delle case abbandonate che creano disagio, perché la gente che si trova qui vive accanto ad una casa bruciata, distrutta. Noi speriamo di poter accogliere anche altri cristiani che non possono tornare a Mosul o che non hanno casa. Quindi il lavoro deve essere terminato al cento per cento per quanto riguarda le case, le infrastrutture e per quegli spazi comuni che devono essere realizzati per creare un ambiente piacevole per la gente che è tornata e per coloro che vogliono tornare.
R. – Sì. Questo lavoro di aiuto e poi di ricostruzione è importante per raccogliere la gente, per proteggere la loro esistenza, la loro terra d’origine, la Piana di Ninive. Quindi questi lavori hanno lo scopo di rafforzare questa comunità, proteggerla, aiutarla a rimanere, per consentire a tutti di svolgere il proprio ruolo come cristiani. Restare è anche un loro diritto perché la loro casa, la loro terra è qui.
R. – Noi stiamo aspettando una soluzione riguardo la nostra cittadinanza. Noi vogliamo un Iraq in cui tutti siano pari, tutti siano cittadini con gli stessi diritti, dove non ci siano cittadini di secondo livello. Bisogna anche risolvere i problemi legati al lavoro e proteggere questi villaggi da quei piani che vogliono portare ad una trasformazione demografica. La comunità internazionale, governi, le Chiese stanno dalla nostra parte, ma dobbiamo portare avanti questo lavoro, per rafforzare queste comunità, per creare lavoro per le persone e soprattutto avere un ruolo davanti al governo iracheno, per aiutarlo a capire che i cristiani non vanno valorizzati solo con le parole ma con i fatti. Devono fare qualcosa di concreto.
R. – Sì, perché non sono siamo persone violente. Il patriarca Sako parla sempre della questione della cittadinanza, cioè del fatto che siamo tutti iracheni e che bisogna smetterla di parlare di etnie, di religioni … Tutto questo per creare un Paese civile, non controllato dalle ideologie. Solo così potremmo avere un Paese in pace. La reazione dei cristiani, non è come quella degli altri: non imbracciano armi, non portano violenza. Fonte vaticannews.va
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