Durante la Liturgia della Parola, presieduta da Papa Francesco in occasione della Giornata Mondiale di Preghiera per la Cura del Creato, il predicatore della Casa Pontificia, padre Raniero Cantalamessa esorta, citando la Laudato si’ e il Cantico delle Creature: «La salvaguardia del creato comincia da te!»
Dio li benedisse e Dio disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra» (Gen 1, 28).
Queste parole hanno suscitato in tempi recenti una forte critica. Esse, ha scritto qualcuno, attribuendo all’uomo un dominio indiscriminato sul resto della natura, sono all’origine dell’attuale crisi ecologica. Viene rovesciato il rapporto del mondo antico, soprattutto dei greci, che vedeva l’uomo in funzione del cosmo, e non il cosmo in funzione dell’uomo (Lynn White, The historical roots of our ecologic crisis in «Science» 1967 e in «Ecology and religion in history» 1974).
Io credo che questa critica, come tante analoghe mosse al testo biblico, parta dal fatto che si interpretano le parole della Bibbia alla luce di categorie secolari ad essa estranee. “Dominate”, non ha qui il significato che la parola ha fuori della Bibbia. Per la Bibbia, il modello ultimo del dominus, del signore, non è il sovrano politico che sfrutta i suoi sudditi, ma è Dio stesso, Signore e padre.
Il dominio di Dio sulle creature non è certo finalizzato al proprio interesse, ma a quello delle creature che egli crea e custodisce. C’è un parallelismo evidente: come Dio è il dominus dell’uomo, così l’uomo deve essere il dominus del resto del creato, cioè responsabile di esso e suo custode. L’uomo è creato perché sia «ad immagine e somiglianza di Dio», non di padroni umani. Il senso del dominio dell’uomo è esplicitato da ciò che segue poco dopo nel testo: «Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gen 2, 15). Lo esprime molto bene la preghiera Eucaristicaiv dove si dice rivolti a Dio: «A tua immagine hai formato l’uomo, alle sue mani operose hai affidato l’universo perché nell’obbedienza a te, suo creatore, esercitasse il dominio su tutto il creato».
La fede in un Dio creatore e nell’uomo fatto a immagine di Dio, non è dunque una minaccia, ma piuttosto una garanzia per il creato, e la più forte di tutte. Dice che l’uomo non è padrone assoluto delle altre creature; deve rendere conto di quello che ha ricevuto. La parabola dei talenti ha qui la sua applicazione primordiale: la terra è il talento che tutti insieme abbiamo ricevuto e di cui dobbiamo rendere conto.
L’idea di un rapporto idillico tra l’uomo e il cosmo, fuori della Bibbia, oltre tutto, è una invenzione letteraria. L’opinione dominante tra i filosofi pagani del tempo tendeva a fare del mondo materiale, sulla scia di Platone, il prodotto di un dio di secondo rango (il Deuteros theos, o Demiurgo), o addirittura, come dirà Marcione, opera di un dio cattivo, diverso dal Dio rivelato da Gesù Cristo. L’anelito era liberarsi dalla materia, non liberare la materia. Una visione, questa, che al tempo di Francesco d’Assisi riviveva nell’eresia dei catari.
Una riprova che non è la visione biblica a favorire la prevaricazione dell’uomo sul creato, è che la mappa dell’inquinamento non coincide affatto con quella della diffusione della religione biblica o di altre religioni, ma coincide piuttosto con quella di una industrializzazione selvaggia, volta solo al profitto, e con quella della corruzione che chiude la bocca a tutte le proteste e resiste a tutti i poteri.
Accanto alla grande affermazione che uomini e cose provengono da un unico principio, il racconto biblico mette in luce, questo sì, una gerarchia di importanza che è la gerarchia stessa della vita e che vediamo inscritta in tutta la natura. Il minerale serve al vegetale che di esso si nutre, il vegetale serve all’animale (è il bue che mangia l’erba non il contrario!), e tutti tre servono alla creatura razionale che è l’uomo.
Questa gerarchia è per la vita, non contro di essa. Essa viene violata, per esempio, quando si fanno spese pazze per degli animali (e non certo per quelli in pericolo di estinzione!), mentre si lasciano morire di fame e di malattie milioni di bambini sotto i propri occhi. Qualcuno vorrebbe abolire del tutto la gerarchia tra gli esseri, posta dalla Bibbia e insita nella natura. Ci si è spinti addirittura a ipotizzare e auspicare un universo futuro senza più la presenza in esso della specie umana, ritenuta dannosa per il resto del creato. La si chiama “ecologia profonda” (è il caso del sito internet vhemt – Voluntary human extinction movement). Ma questo è chiaramente un non-senso. Sarebbe come se un’immensa orchestra fosse ridotta a suonare una splendida sinfonia, ma nel vuoto totale, senza che ci sia nessuno ad ascoltare e gli stessi suonatori fossero sordi.
Come è rasserenante, in questo contesto, riascoltare le parole del salmo 8 che vogliamo far nostre in questa veglia di preghiera: «Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissato, che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi? Davvero l’hai fatto poco meno di un dio, di gloria e di onore lo hai coronato. Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi: tutte le greggi e gli armenti e anche le bestie della campagna, gli uccelli del cielo e i pesci del mare, ogni essere che percorre le vie dei mari. O Signore, Signore nostro, quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra!».
Passiamo ora al brano evangelico che abbiamo ascoltato: «Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo… Osservate come crescono i gigli del campo. Non preoccupatevi dunque dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?”… Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. A ciascun giorno basta la sua pena» (Mt 6, 25-34).
Qui le obiezioni umane diventano un coro di protesta. Non preoccuparsi del domani? Ma non è proprio quello che si propone l’ecologismo e che Papa Francesco fa in tutta la sua enciclica Laudato si’? È salutare che a volte reagiamo così alla parola di Gesù; è sempre l’occasione per scoprire qualcosa di nuovo nelle sue parole.
Anzitutto una precisazione necessaria. Gesù non rivolge quelle parole a tutti indistintamente, ma a coloro che chiama a una sequela radicale, a essere suoi collaboratori nella predicazione del regno, al pari di lui che non aveva dove posare il capo. A quelli che confidano a tal punto nella provvidenza del Padre celeste da non preoccuparsi del domani, egli assicura (e la storia in venti secoli non l’ha mai smentito) tutto il necessario, magari all’ultimo momento.
Ma quelle parole di Gesù oggi parlano anche a tutti noi. Dicono: non preoccupatevi del vostro domani, ma preoccupatevi del domani di quelli che verranno dopo di voi! Non chiedetevi: «Che mangeremo? Che berremo? Che vestiremo?». Chiedetevi piuttosto: «Che mangeranno? Che berranno? Che vestiranno i nostri figli, i futuri abitatori di questo pianeta?».
Un grande studioso dell’antichità cristiana, Adolph von Harnack, ha scritto che quando si tratta di noi stessi, il vangelo ci vuole distaccati dai beni della terra, ma quando si tratta del prossimo non vuole nemmeno sentire parlare di disinteresse e di vivere alla giornata. «La massima speciosa del “libero gioco delle forze”, del “vivere e lasciar vivere” — meglio sarebbe dire: vivere e lascia morire — è in aperta opposizione con il vangelo» (Das Wesen des Christentums, Lipsia 1900. Traduzione italiana L’essenza del cristianesimo, Brescia, Queriniana 1980). Purtroppo questa massima del “vivere e lasciar morire” è quella che nessuno pronuncia, ma molti praticano nella realtà. Gesù, in più occasioni, si preoccupa di dare lui stesso da mangiare alla gente, moltiplicando il pane e i pesci, e alla fine dice di raccogliere i pezzi avanzati «perché nulla vada disperso» (Gv 6, 12). Una parola che bisognerebbe adottare come motto contro lo spreco, soprattutto in campo alimentare.
In realtà, il brano evangelico mette la scure alla radice — la stessa scure alla stessa radice a cui la mette Papa Francesco nella sua enciclica. Lo fa quando dice all’inizio del brano: «Non potete servire Dio e la ricchezza». Nessuno può servire seriamente la causa della salvaguardia del creato se non ha il coraggio di puntare il dito contro l’accumulo di ricchezze esagerate nelle mani di pochi e contro il denaro che ne è la misura.
Sia chiaro: Gesù non ha mai condannato la ricchezza per se stessa. A Zaccheo permette di tenere la metà dei suoi beni che dovevano essere cospicui; tra i suoi amici c’è Giuseppe d’Arimatea definito «uomo ricco» (Mt 27, 57). Quella che Gesù condanna è «la ricchezza disonesta» (Lc16, 9), la ricchezza accumulata a spese del prossimo, frutto di corruzione e speculazione, la ricchezza sorda ai bisogni del povero: quella, per esempio, del ricco epulone della parabola, che oggi, tra l’altro, non sta più per un individuo, ma un intero emisfero.
Ora possiamo dedicare un po’ di attenzione anche a Francesco d’Assisi e al suo cantico delle creature che Papa Francesco, con felicissima intuizione, ha scelto come cornice spirituale per la sua enciclica. Che cosa possiamo imparare da lui, noi uomini d’oggi?
Francesco è la prova vivente dell’apporto che la fede in Dio può dare allo sforzo comune per la salvaguardia del creato. Il suo amore per le creature è una conseguenza diretta della sua fede nella paternità universale di Dio. Non ha ancora le ragioni pratiche che abbiamo noi oggi per preoccuparci del futuro del pianeta: inquinamento atmosferico, scarsità di acqua pulita… Il suo è un ecologismo puro dagli scopi utilitaristici, per quanto legittimi, che abbiamo noi oggi. Le parole di Gesù «Uno solo è il vostro Padre, quello celeste; voi siete tutti fratelli» (cfr. Mt 23, 8-9), gli bastano. Esse non sono per lui un principio astratto; è l’orizzonte costante dentro cui vive e pensa. Forte di questa certezza, egli ha voluto mettere il mondo intero «in stato di fraternità e in stato di lode».
Le fonti francescane ci riferiscono i sentimenti con cui Francesco si accinse a scrivere il suo cantico: «Voglio, a lode di Dio e a mia consolazione e per edificazione del prossimo, comporre una nuova Lauda del Signore per le sue creature. Ogni giorno usiamo delle creature e senza di loro non possiamo vivere, e in esse il genere umano molto offende il Creatore. E ogni giorno ci mostriamo ingrati per questo grande beneficio, e non ne diamo lode, come dovremmo, al nostro Creatore e datore di ogni bene». E postosi a sedere, si concentrò a riflettere, e poi disse: «Altissimo, onnipotente, bon Segnore…» (Leggenda Perugina, 43; «Fonti Francescane», 1592).
Le parole del santo che definisce bello il sole, bello fratello fuoco, chiarite e belle le stelle, sono l’eco di quel «E Dio vide che tutto era bello», del racconto della creazione.
Il peccato di fondo contro il creato, che precede tutti gli altri, è di non ascoltare la sua voce, condannarlo irrimediabilmente, direbbe san Paolo, alla vanità, all’insignificanza (cfr. Rom 8, 18 s.). Lo stesso Apostolo parla di un peccato fondamentale che chiama empietà, o «soffocare la verità». Dice che esso è il peccato di chi «pur conoscendo Dio non gli rende gloria e non gli dice grazie» come si conviene a Dio. Questo non è dunque soltanto il peccato degli atei che negano l’esistenza di Dio; è anche il peccato di quei credenti dal cui cuore non è uscito mai un entusiastico «Gloria a Dio nell’alto dei cieli», né un commosso «Grazie a te, Signore». La Chiesa ci mette sulle labbra le parole per farlo quando, nel Gloria della Messa, ci fa dire: «Noi ti lodiamo, ti benediciamo, ti adoriamo, ti glorifichiamo, ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa».
«I cieli e la terra — dice spesso la Scrittura — sono pieni della sua gloria». Ne sono, per così dire, gravidi. Ma essi non possono, da soli, “sgravarsene”. Come la donna incinta, hanno bisogno anch’essi delle abili mani di una levatrice per dare alla luce ciò di cui sono “gravidi”. E queste “levatrici” della gloria di Dio dobbiamo essere noi. Quanto ha dovuto attendere l’universo, quale lunga rincorsa ha dovuto prendere, per giungere a questo punto! Milioni e miliardi di anni, durante i quali la materia, attraverso la sua opacità, avanzava faticosamente verso la luce della coscienza, come la linfa che dal sottosuolo sale verso la cima dell’albero per espandersi in fiore e frutto. Questa coscienza fu finalmente raggiunta, quando comparve nell’universo «il fenomeno umano». Ma ora che l’universo ha raggiunto il suo traguardo, esige che l’uomo compia il suo dovere, che assuma, per così dire, la direzione del coro e intoni per tutti il «Gloria a Dio nell’alto dei cieli!».
Francesco ci addita la strada per un cambiamento radicale nel nostro rapporto con il creato: essa consiste nel sostituire al possesso la contemplazione. Egli ha scoperto un modo diverso di godere delle cose che è quello di contemplarle, anziché possederle. Può gioire di tutte le cose, perché ha rinunciato a possederne alcuna. Le fonti francescane ci descrivono la situazione di Francesco quando compone il suo Cantico delle creature: «Non essendo in grado di sopportare di giorno la luce naturale, né durante la notte il chiarore del fuoco, stava sempre nell’oscurità in casa e nella cella. Non solo, ma soffriva notte e giorno così atroce dolore agli occhi, che quasi non poteva riposare e dormire, e ciò accresceva e peggiorava queste e le altre sue infermità» (Leggenda Perugina, 1614; «Fonti Francescane», 1591).
Francesco canta la bellezza delle creature quando non è più in grado di vedere nessuna di esse e anzi la semplice luce del sole o del fuoco gli procura atroci dolori! Il possesso esclude, la contemplazione include; il possesso divide, la contemplazione moltiplica. Uno solo può possedere un lago, un parco, e così tutti gli altri ne sono esclusi; migliaia possono contemplare quello stesso lago o parco, e tutti ne godono senza sottrarlo ad alcuno. Si tratta di un possesso più vero e profondo, un possedere dentro, non fuori, con l’anima, non solo con il corpo. Quanti latifondisti si sono mai fermati ad ammirare un fiore dei loro campi o ad accarezzare una spiga del loro grano? La contemplazione permette di possedere le cose senza accaparrarle.
L’esempio di Francesco d’Assisi dimostra che l’atteggiamento religioso e dossologico nei confronti del creato non è senza conseguenze pratiche e operative; non è qualcosa campato in aria. Spinge anche a gesti concreti. Ecco come il primo biografo del Santo riferisce alcuni di questi gesti concreti del Poverello: «Abbraccia tutti gli esseri creati con un amore e una devozione quale non si è mai udito […]. Quando i frati tagliano legna, proibisce loro di recidere del tutto l’albero, perché possa gettare nuovi germogli. E ordina che l’ortolano lasci incolti i confini attorno all’orto, affinché a suo tempo il verde delle erbe e lo splendore dei fiori cantino quanto è bello il Padre di tutto il creato. Vuole pure che nell’orto un’aiuola sia riservata alle erbe odorose e che producono fiori, perché richiamino a chi li osserva il ricordo della soavità eterna. Raccoglie perfino dalla strada i piccoli vermi, perché non siano calpestati, e alle api vuole che si somministri del miele e ottimo vino, affinché non muoiano di inedia nel rigore dell’inverno» (Celano, Vita Seconda, 165).
Alcune sue raccomandazioni sembrano scritte oggi, sotto la pressione degli ambientalisti. Egli disse un giorno: «Io non voglio essere ladro di elemosine» (Celano, Vita Seconda, 54), s’intende, ricevendone più del bisogno, sottraendole così a chi ne ha più bisogno di me. Oggi questa regola potrebbe avere un’applicazione quanto mai utile per l’avvenire della terra. Anche noi dovremmo proporci: non voglio essere ladro di risorse, usandone più del dovuto e sottraendole così a chi verrà dopo di me.
Certo, Francesco non aveva la visione globale e planetaria del problema ecologico, ma una visione locale, immediata. Pensava a quello che poteva fare lui ed eventualmente i suoi frati. Anche in questo però egli ci insegna qualcosa. Uno slogan oggi molto di moda dice: Think globally, act locally, pensa globalmente, ma agisci localmente. Che senso ha, per esempio, prendersela con chi inquina l’atmosfera, gli oceani e le foreste, se io non esito a gettare in riva a un torrente o al mare, un sacchetto di plastica che rimarrà lì per secoli, se qualcuno non lo recupera, se butto dove capita, strada o bosco, quello di cui mi voglio liberare, o se imbratto le mura della mia città?
La salvaguardia del creato, come la pace, si fa, direbbe il nostro Santo Padre Francesco, “artigianalmente”, cominciando subito da se stessi. La pace incomincia da te, si ripete spesso nei messaggi per la giornata della pace; anche la salvaguardia del creato comincia da te. Era quello che un rappresentante ortodosso affermava già nell’Assemblea ecumenica di Basilea del 1989 su “Giustizia, pace e salvaguardia del creato”: «Senza un cambiamento del cuore dell’uomo, l’ecologia non ha speranze di successo».
Concludo la mia riflessione. Poche settimane prima della sua morte san Francesco aggiunse una strofa al suo Cantico, quella che comincia con le parole: «Laudato sii, mi Signore, per quelli che perdonano per lo tuo amore» (Leggenda Perugina, 84). Penso che se vivesse oggi egli aggiungerebbe un’altra strofa ancora al suo cantico: Laudato sii, mi Signore, per tutti quelli che lavorano per proteggere nostra sorella madre Terra, scienziati, politici, capi di tutte le religioni e uomini di buona volontà. Laudato sii, mi Signore per colui che, insieme con il mio nome, ha preso anche il mio messaggio e lo sta portando oggi a tutto il mondo!
A cura di Alessandro Ginotta per PAPABOYS 3.0
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