La sofferenza, dal punto di vista medico, è una compagna inseparabile dell’esistenza che si manifesta in una molteplicità di forme.
C’è la sofferenza fisica del corpo e la sofferenza psichica dell’anima. Quest’ultima è a volte associata alla sofferenza corporale, mentre altre volte – anzi, forse più spesso – è collegata al “mal di vivere” contemporaneo, che si manifesta in patologie di tipo depressivo ed ansioso.
Nella mia ultratrentennale esperienza di specialista neurologo, ho potuto constatare diversi tipi di risposta alla sofferenza. C’è chi reagisce al dolore con frustrazione e con rabbia, accusando di crudeltà Dio e la natura, e chi – al contrario – è indotto a percepire il senso dei suoi limiti e a porsi degli interrogativi sul significato della vita.
È interessante osservare che, se il dolore costituisce un’esperienza penosa per tutti, cambia invece radicalmente la reazione alla sofferenza in rapporto al proprio atteggiamento nei confronti della fede.
Vari studi condotti negli Stati Uniti e in Europa hanno esaminato il nesso esistente tra la spiritualità e la salute fisica e mentale, dimostrando che, ad un livello più alto di spiritualità, corrisponde normalmente un grado più basso di depressione e di ansia, ed una accettazione più serena del proprio stato.
I risultati di queste ricerche trovano conferma anche nella mia esperienza professionale, perché ho potuto constatare di persona che, di fronte al mistero del dolore, la preghiera è motivo di speranza e di conforto vitale.
San Giovanni Paolo II approfondì il senso cristiano della sofferenza nella Lettera Apostolica Salvifici Doloris. E ne diede testimonianza con la forza d’animo con cui visse la sua drammatica agonia. Ma se un Santo oppone all’incombenza della morte la saldezza di una fede granitica, qual è il comportamento di una persona normale di fronte alla prospettiva della fine?
Elisabeth Kubler-Ross (1926-2004), una psichiatra svizzera che si dedicò allo studio dei malati terminali, descrisse cinque fasi di reazione alla prognosi mortale, caratterizzate da diverse gradazioni della sofferenza: dal rifiuto all’accettazione. La Kubler-Ross s’interessò inoltre dei cosiddetti fenomeni di “pre-morte”: un campo d’indagine che, nel 1975, divenne noto anche al grande pubblico grazie al successo del libro La vita oltre la vita, scritto dallo psicologo statunitense Raymond Moody.
Il libro riportava una ricca casistica di casi di persone andate in coma e recuperate alla vita grazie alle moderne tecniche di rianimazione. Alcune di esse riferirono di aver vissuto, durante lo stato di pre-morte, particolari esperienze come il riesame della propria vita o l’incontro con “esseri di luce”.
Molti medici sminuirono la portata di tali fenomeni, ritenendo che fossero delle semplici proiezioni dell’attività cerebrale. Ma le indagini scientifiche andarono avanti portando a conclusioni inattese. Dopo una ricerca durata vent’anni, il cardiologo olandese Pim van Lommel confermò la fondatezza degli studi del dott. Moody, estendendone ulteriormente le implicazioni.
Il dott. van Lommel si basò sulla straordinaria esperienza di alcuni pazienti dichiarati clinicamente morti, che avevano reagito con successo alle terapie di rianimazione. Quei pazienti avevano mostrato un elettroencefalogramma piatto, che rivelava la cessazione di ogni attività cerebrale, e tuttavia, una volta recuperati alla vita, avevano descritto con esattezza sensazioni ed eventi avvenuti durante la loro morte clinica.
La coscienza, dunque, non è un prodotto della chimica e non dipende dalle attività elettriche del cervello: “Constatare l’esistenza cosciente dell’Io personale dopo la morte clinica del corpo – scrive van Lommel nel suo bestseller Coscienza oltre la vita – mi sembra che possa interpretarsi come una prova scientifica dell’esistenza dell’anima nonché dell’esistenza della vita oltre la morte”.
Per la prima volta la possibilità di una “vita oltre la morte”, enunciata dalla religione come un dogma di fede, diventa un fenomeno alla portata dell’indagine scientifica.
E qui vengo alla mia personale esperienza, che presenta in qualche modo delle analogie con gli studi pioneristici di Moody e van Lommel. Anche io ho dovuto confrontarmi con fenomeni oggettivamente esistenti ma inspiegabili dal punto di vista della scienza.
Nel 2010 ebbi l’onore d’essere nominato dal Vaticano nella Consulta medica di sette specialisti che avrebbe dovuto valutare la “inspiegabilità scientifica” della guarigione di suor Normand dal morbo di Parkinson, premessa indispensabile per il riconoscimento del miracolo e quindi per la beatificazione di Giovanni Paolo II.
Dallo studio degli esami specialistici e delle testimonianze, verificai che tutti i sintomi da cui era affetta suor Normand confermavano la diagnosi di morbo di Parkinson: una malattia ad evoluzione cronica, progressiva, che non regredisce spontaneamente. Eppure ero di fronte ad una guarigione avvenuta in modo risolutivo, istantaneo, duraturo e totale. Un evento scientificamente non spiegabile, che per la Chiesa equivale a dire miracolo.
Mi resi conto d’aver vissuto un’esperienza che può definirsi un “unicum” nella vita di un medico. Perché una cosa è sapere le cose in teoria per averne sentito parlare da altri, e una cosa è viverle personalmente. E l’esperienza del miracolo è qualcosa che ti cambia dentro. Perché ti dà la chiara consapevolezza che esiste qualcosa che ci trascende ma di cui, al tempo stesso, siamo parte integrante.
Nella cupola della Basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri a Roma è incisa una frase di Giovanni Paolo II: “La scienza ha radici nell’Immanente, ma porta l’uomo verso il Trascendente”.
“Immanente” e “Trascendente” sono le due polarità all’interno delle quali si svolge la nostra esperienza: corpo fisico e anima spirituale. Un concetto che è un paradigma di fede ma che sta penetrando, sempre più, nel cuore della più avanzata ricerca scientifica: dalle indagini sulla struttura della mente agli sviluppi della fisica.
Un punto d’incontro – quello tra fede e scienza – che Giovanni Paolo II aveva prefigurato nell’Enciclica Fides et Ratio (1998) con le celebri parole d’apertura: “La fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della verità”.
Grandi scienziati del ‘900 hanno affermato, a loro volta, l’intima corrispondenza tra la dimensione razionale e quella di fede. A riprova che la nuova alleanza tra fede e ragione indicata da Giovanni Paolo II costituisce una via maestra del pensiero contemporaneo: un antidoto potente contro la vacuità esistenziale che ci minaccia.
Noi non siamo minuscoli granelli di polvere smarriti nel mondo, ma partecipiamo, con la nostra identità, a un movimento universale dove ogni cosa ha un preciso significato. Questo c’insegna l’incontro tra la fede e la scienza, che non dissolve il Mistero ma ne rivela l’intima natura: non già un limite, ma piuttosto una forma di rispetto per la nostra libertà, alla quale Dio non s’impone, ma si propone.
Da queste considerazioni emerge il senso di una nuova speranza. Che è l’esatto contrappeso della sofferenza. Una grande speranza, perché la nostra esistenza individuale e tutto ciò che ci circonda – compreso il dolore – sono parte di un piano divino che si manifesta al credente attraverso la grazia della fede, e allo scienziato attraverso le leggi fondamentali che regolano ogni fenomeno della Natura.
A cura di Redazione Papaboys fonte: Zenit