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La sofferenza dei bimbi fa male all’anima, ma Gesù non abbandona

Una gli fa il segno della Croce, uno gli sistema un braccialetto al polso, un altro lo abbraccia in cerca di protezione. Tutti stringono fra le mani piccoli fiori di margherita e cantano. Sono i 300 bambini che hanno accolto il Papa all’Hogar de San José di Medellín, una delle case famiglia gestite dalla locale arcidiocesi per assistere i più piccoli, vittime della violenza e dell’abbandono. Proprio pensando a tali realtà di disagio, il Papa osserva che veder soffrire i bambini “fa male all’anima”, perché “sono i prediletti di Gesù”: non si può accettare “che siano maltrattati, che siano privati del diritto di vivere la loro infanzia con serenità e gioia, che si neghi loro un futuro di speranza”. Papa Francesco ascolta attentamente i saluti del direttore, mons. Armando Santamaría Ortiz, e la testimonianza Claudia Yesenia.

L’uno parla dell’assistenza fornita ai piccoli ospiti: con “una preghiera, uno sguardo sereno, un dialogo sincero” si aiuta “a ricostruire il tessuto umano e scoprire l’amore di Dio che apre nuovi orizzonti”. L’altra racconta la sua storia, fatta di dolore per la perdita della propria famiglia in un massacro di guerriglieri. Dopo anni di sofferenze, ora assicura di aver trovato all’Hogar una “seconda famiglia” e tutto il necessario “per essere felice: la fede, il calore della casa, la buona formazione, la salute, il cibo”. Il Papa richiama “alla memoria del cuore” la sofferenza “ingiusta” di tanti bambini e bambine in tutto il mondo, “vittime innocenti della cattiveria di alcuni”.

Anche Gesù Bambino, ricorda, è stato “vittima dell’odio e della persecuzione”; ha dovuto scappare con la sua famiglia, lasciare la sua terra e la sua casa, “per sfuggire alla morte”. Ma Gesù, assicura il Pontefice, “non abbandona nessuno che soffre”, tanto meno i bambini e le bambine, che sono i suoi “preferiti”.

L’Hogar de San José, appunto una “casa”, è una prova “dell’amore che Gesù ha” per i piccoli e del suo desiderio di stare loro “molto vicino”, attraverso “la cura amorevole di tutte le persone buone” che lì operano: perché i responsabili della struttura, il personale e tante altre persone ormai “fanno parte” di una famiglia: è questo che fa sì che l’Hogar “sia una casa”, cioè il calore di una famiglia “dove ci sentiamo amati, protetti, accettati, curati e accompagnati”.






Francesco si compiace che la casa “porti il nome di San Giuseppe” e gli altri centri analoghi siano intitolati a “Gesù lavoratore” e “Betlemme”: siete “in buone mani”, dice, perché “come San Giuseppe ha protetto e difeso dai pericoli la Santa Famiglia, così pure difende voi, vi custodisce e vi accompagna” aggiunge il Pontefice, assicurando anche la protezione di Gesù e Maria.
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A tutti i religiosi e laici che, nelle varie case della ‘capitale cattolica’ della Colombia, accolgono e curano “con amore” i bambini “che fin da piccoli hanno sperimentato la sofferenza e il dolore”, Francesco ricorda due realtà “che non devono mancare perché fanno parte dell’identità cristiana”: l’amore che sa vedere Gesù “presente nei più piccoli e deboli” e il “sacro dovere di portare i bambini a Gesù”. In tale compito, “con le sue gioie e le sue pene”, il Papa auspica che proprio San Giuseppe li ispiri e aiuti “nella cura amorevole” dei bambini, “che sono il futuro della società colombiana, del mondo e della Chiesa”: come Gesù, è l’augurio di Francesco che s’impegna a pregare per la loro comunità, “possano crescere in sapienza e grazia davanti a Dio e agli uomini”, nella speranza che possano “guarire le ferite del corpo e del cuore”, perché il Signore non abbandona, protegge e assiste.
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di Giada Aquilino, inviata in Colombia per la Radio Vaticana

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