Nour Essa era nel gruppo che Francesco ha portato a Roma da Lesbo ad aprile, oggi ha imparato l’italiano, si è iscritta all’università e lavora al Bambino Gesù.
Quando è arrivata a Roma, lo scorso 16 aprile a bordo dell’aereo che ha riportato a casa il Papa dall’isola greca di Lesbo, Nour Essa, biologa, non parlava una parola di italiano. «Mio marito era stato chiamato per il servizio militare. Poteva andare in zone pericolose. Non volevamo entrare in questa guerra, magari uccidi qualcuno o puoi essere ucciso, non eravamo né con il regime né con gli islamisti. Non avevamo altra scelta. Abbiamo deciso di scappare dalla Siria», spiega adesso in buon italiano questa giovane donna di 32 anni che già non ha più tempo per i corsi di lingua nella scuola della comunità di Sant’Egidio, nel quartiere romano di Trastevere, perché si è iscritta all’Università Roma Tre, per ottenere il riconoscimento della laurea siriana, e da poco lavora in un laboratorio dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù di proprietà della Santa Sede.
«Sono tutti molto gentili e accoglienti. Devo ringraziare la dottoressa Ersilia Fiscarelli e il dottor Ruggero Parrotto per questa opportunità. Devo imparare cose nuove e tutti mi aiutano», spiega Nour , che si è laureata in biologia a Damasco e ha poi iniziato un dottorato in microbiologia a Montpellier. Un’esperienza interrotta quando, dopo due anni all’estero, nel 2013, la giovane donna, di origini palestinesi, è tornata per le vacanze in patria ed ha scoperto di non poter ripartire perché il regime siriano aveva adottato una politica restrittiva per l’espatrio dei palestinesi.
Due anni dopo, lasciare la Siria, con mezzi di fortuna, è stato l’unico modo per sfuggire alla violenza. Nour
Il gruppo viene sbarcato nell’isola di Lesbo, dove le autorità greche e le organizzazioni non governative sono «molto accoglienti», curano i transfughi con problemi di salute e li sistemano in un campo per rifugiati. Appena in tempo: «Siamo stati fortunati perché nel giorno in cui siamo arrivati noi abbiamo preso i nostri fogli amministrativi alle sei della mattina, mentre le persone sulle barche che sono arrivate lo stesso giorno alle 18 o alle 19 della sera non hanno ottenuto i fogli, era appena cominciata l’applicazione dell’accordo, e queste persone sono rimaste bloccate». Gli afgani, quel giorno stesso, vengono rimpatriati.
Il 16 aprile
Nour conferma con una risata: «Mio figlio canta sempre “Il coccodrillo come fa”…». La famiglia si è adattata alla vita italiana e al caos della Capitale. Alla giovane donna manca il suo Paese, le bellezze archeologiche romane le ricordano gli edifici antichi di Damasco, ma sono soprattutto gli amici e i famigliari che le mancano. La madre e il fratello partiranno presto per la Francia, dove Nour ha altri parenti, dove hanno ottenuto il riconoscimento dello status di rifugiati politici. Quando la guerra sarà finita vorrebbero tornare in Siria. Ora la speranza è semplice: «Non siamo jihadisti, non siamo terroristi, non facciamo paura a persona, vorremmo solo vivere una vita in pace: questa è la richiesta di ogni essere umano, il diritto di ogni essere umano. Siamo tutti uguali, noi abbiamo una vita normale come tutti gli europei, abbiamo un lavoro, abbiamo una casa in Siria ma siamo scappati dalla guerra. E siamo scappati anche per chiedere una vita di pace al mio bambino, perché ha il diritto di vivere in pace come tutti gli altri bambini del mondo… e come abbiamo fatto anche noi da piccoli».
Fonte: www.lastampa.it
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