«Non c’è contraddizione tra fede e sport, Dio migliora le cose e le rende tutte più godibili. Lui nella Sua mente già conosceva non solo i miei 15 anni nel calcio, ma anche quelli successivi di frate domenicano. Ora attendo da Lui il mio nuovo capitolo…». Tifo da stadio, è il caso di dirlo, per Philip Mulryne, che nel saio bianco da frate domenicano conserva tutto il fascino dell’ex campione di calcio che era, prima nel Manchester United poi nel Norwich. Si è parlato anche di “Famiglia e Sport”, ieri a Dublino, e la parola è andata proprio ai grandi del calcio e del rugby. «Vivevo a Belfast, capitale dell’Irlanda del Nord, durante la guerra civile – ha raccontato Mulryne – c’era un brutto clima, ma il legame con la parrocchia ci sosteneva. Nella squadra parrocchiale nel 1994 giocavo le prime partite ed è lì che un talent scout mi scoprì». Il padre, tifoso, ne fu lieto, la madre, lungimirante, si preoccupò: «Ogni sera lei ci insegnava a pregare e temeva che il successo mi allontanasse dalla fede».
Puntualmente ciò avvenne, quando a Manchester arrivò il primo successo e «la fede fu offuscata dal materialismo». Eppure lo sport svolgeva già la sua funzione positiva di grande e sana famiglia, con il mister per eccellenza, Alex Ferguson, che «ci conosceva uno per uno per nome, e quando vedeva in me la nostalgia di casa chiamava mia madre. Inoltre i grandi campioni, quelli di cui avevo a casa il poster, ci stavano vicini, ci consigliavano, erano celebrità con un tocco umano». Da loro Mulryne apprendeva il senso del sacrificio e la solidarietà dello spogliatoio. Nel 2000 il passaggio al Norwich, la Premier League e «per fortuna anche un capitano che un giorno mi disse: vieni, andiamo a Messa». Era il 2008 e le belle auto non bastavano più, «nella gente di fede vedevo brillare una gioia diversa dalla mia e volevo quella. L’ho ritrovata grazie a mia sorella».
Boato di applausi quando la parola passa a Aidan O’Mahony, 38 anni, vero idolo del football irlandese, reduce dal “Ballando con le stelle” della tivù nazionale: «Ho giocato a calcio gaelico 14 anni e provato a ballare per sedici settimane», esordisce scherzando. Ricorda quando a casa arrivò la lettera di convocazione, rivolta ai genitori perché era ragazzino, non dimenticherà mai l’espressione di orgoglio sui loro volti. «Ma lo sport ti dà anche una grande responsabilità, ti mette un numero sulla schiena e diventi un simbolo. Ora ho l’occasione per restituire ai giovani quanto la squadra mi ha dato».
Che lo sport sia una vera famiglia lo ha attestato Olive, la giovane moglie del mitico Anthony Foley, allenatore del Munster, squadra irlandese di rugby morto nel 2016 a 42 anni per un infarto. «Lo hanno trovato nel suo letto in hotel a Parigi il giorno della partita contro i francesi – ha raccontato in lacrime la moglie, rimasta con i loro due bambini – e lì ho scoperto l’affetto enorme che la gente provava per lui, non perché era un grande atleta, ma perché nell’esserlo restava umile. Voi tutti avrete perso qualcuno e la mia perdita non è più grave della vostra, ma mi manca il mio migliore amico e il vuoto è incolmabile. Anche se la famiglia, la mia e quella grande dello sport, ci aiutano sempre». A chi le chiede se non sia arrabbiata con Dio risponde che «Lui ha un suo piano e io mi fido. Quando sei in ginocchio e disperato, se non hai la fede non hai davvero nulla». Standing ovation e commozione palpabile.
Dopo di lei fatica a parlare il campione di rugby Ronan O’Gara, anche lui nelle file del Munster, che proprio alla fede deve equilibrio e piedi per terra: «Lo sport è un cammino con cadute e sacrifici, l’importante è farlo come lo facevamo noi, io praticavo un gioco che amavo, tutto qui, ero celebre e restavo accessibile». «E’ ciò che il Papa chiede ai campioni – ha concluso il vescovo Paul Tighe, segretario del pontificio Consiglio della Cultura –, che usino la loro notorietà per creare rispetto e solidarietà, portare gioia e diffondere un linguaggio assolutamente universale, capace di fare inclusione». Di insegnare al mondo il gioco di squadra.
Fonte avvenire.it