BERGOGLIO SCONOSCIUTO – L’attenzione di papa Francesco per i poveri è qualcosa di più del chinarsi amorevolmente sugli ultimi. Qualcosa di più forte del semplice ma impegnativo dovere di non tralasciare gli ultimi. E’ nel Vangelo, certo. Ma poi nella missione di Bergoglio si percepisce una visione netta, precisa, della povertà non come condizione ineluttabile, ma come forma di violenza. Un sopruso che spesso si connota anch’esso come “terrorismo di stato”. Un abuso di potere che tiene gli ultimi in ostaggio delle promesse politiche e dei giochi di potere.
Una cognizione che in padre Jorge Mario Bergoglio si fece ancora più nitida, proprio negli anni della “Guerra sporca”. Grazie a due amici che finirono nel mirino della polizia politica argentina per essere, potremmo dire oggi, dei “sovversivi dell’acqua potabile”.
Ero a Buenos Aires, nel maggio 2013, quando venni a sapere di una coppia di origine europea che fu violentemente perseguitata. Il marito era stato crudelmente seviziato per giorni. Le voci che avevo raccolto dicevano che poi la famigliola salpò dall’Argentina con la figlia di pochi mesi. Niente di più. Da allora non erano più tornati a vivere nel paese.
Fu così che potei ricostruire la storia di Ana e Sergio Gobulin e della ininterrotta amicizia con padre Jorge. Sergio, figlio di emigrati italiani in Argentina, fu costretto controvoglia a tornare nella terra dei padri. Da subito compresi che si trattava di una persona che non portava alcun rancore nonostante quello che gli era capitato. Un uomo buono, leale, ma irremovibile. “Mi spiace, ma non rilasciamo interviste. La ringraziamo per il suo interesse e capisco che non s’è scelto una ricerca facile, però preferiamo non perdere la nostra vita normale”, disse la prima volta che lo contattai. C’era qualcosa di più della volontà di non voler finire sui giornali. “Non volevamo in alcun modo usare la notorietà di Bergoglio a nostro vantaggio”, confideranno settimane dopo.
I baffi da gringo e il passo da buon camminatore dicono di Sergio più di quanto non faccia con le parole. Non è un uomo consumato dal rancore. E deve essere merito di Ana, a cui gli incubi argentini non hanno strappato un sorriso aperto e uno sguardo sereno sul prossimo.
In qualche modo Ana e Sergio possono dire di essere tornati in vita grazie a padre Jorge.
Ogni tanto il telefono squilla. Sul display Sergio non vede alcun numero. Sa già chi è. “Mi manca la strada”, gli ha confidato una volta papa Francesco. Non è solo la città in sé, Buenos Aires, di cui sente il distacco, ma quella sua idea di “strada”, il palcoscenico di milioni di vite su cui Bergoglio irrompeva regolarmente sentendosi anche lui “in cammino” con la sua gente. E poi “a Buenos Aires potevo uscire, andare a comprare il giornale”.
Sergio era uno studente di teologia e Bergoglio uno dei suoi insegnanti. Era emigrato con i genitori quando aveva 4 anni. Completati gli studi superiori decise di trasferirsi nella baraccopoli di Mitre, a San Miguel per aiutare i poveri non lontano dal collegio dei gesuiti dove potevano studiare anche i laici. Erano i primi anni del post-concilio. Nel mondo ecclesiale e in generale in quello culturale si respirava un’aria nuova. La chiesa si spingeva verso territori talvolta trascurati o del tutto inesplorati. “Un giorno Jorge mi disse che voleva venire a trovarmi. Ma lì non avevamo l’acqua potabile, meno che mai le fognature, e il pavimento era di terra battuta”. Padre Bergoglio ci andò lo stesso e si fermò per tre giorni. Non fu l’unica volta. “Desiderava conoscere quella realtà”, dice Sergio. “Tornava in Collegio profondamente colpito da quell’esperienza». Nel novembre del 1975, quando decise di sposare Ana fu proprio Bergoglio a unirli in matrimonio.
L’anno successivo i militari perquisirono la loro umile abitazione. Non trovarono nulla di sovversivo, ma la baracca fu devastata. I Gobulin e gli altri giovani del quartiere non si fecero intimidire. Visto che Sergio e Ana non impararono la lezione, nell’ottobre del 1976, sette mesi dopo il colpo di stato, i militari tornarono per sequestrarli. Ana sfuggì perché si trovava fuori casa con la figlia di pochi mesi. Sergio lo scovarono in flagrante attività sovversiva: l’autocostruzione della rete idrica con l’aiuto degli abitanti della baraccopoli. Una cospirazione per l’acqua corrente. Non avesse rischiato la pelle, oggi ci sarebbe da farsi due risate. Nel quartiere avevano avviato anche una scuola serale, un ambulatorio medico gratuito, il servizio di assistenza alle ragazze madri.
“Bergoglio smosse cielo e terra affinché venissi liberato”, racconta Sergio. Ci vollero diciotto giorni perché si riuscisse ad avere sue notizie. Quando finalmente i militari lo sbatterono fuori da un centro di prigionia mai identificato venne ricoverato sotto falso nome nell’ospedale italiano di Buenos Aires. Ci vorrà un mese prima che Sergio Gobulin potesse tornare a muovere qualche passo.
«I giorni del mio sequestro – racconta Gobulin – sono stati davvero duri, sia per le torture fisiche che, soprattutto, per quelle psicologiche. Dopo la mia liberazione sono venuto a conoscenza, attraverso i miei familiari, degli sforzi compiuti per la mia ricerca e liberazione da parte di padre Jorge».
Con Ana pensarono di trasferirsi all’interno del paese fino a quando la situazione non fosse tornata normale, “ma Bergoglio ci disse che se non andavamo via ci avrebbero trovati e avremmo fatto la fine degli altri desaparecidos”.
L’organizzazione della fuga non fu semplice. Fu Bergoglio ad accompagnarli sul molo da dove un transatlantico sarebbe salpato per il Portogallo. L’immagine della nave che si allontana nel tramonto sul Mar del Plata, quella sera non aveva nulla di romantico. Era l’istantanea di un fallimento. Questo pensava Sergio. Padre Jorge gli aveva dato anche dei soldi per affrontare i primi tempi in Italia.
Intanto Bergoglio appena possibile si recò a Santa Fé, dalla madre di Sergio. La donna non poteva permettersi un costoso viaggio verso l’Italia del Nord. “Va a trovare tuo figlio”, le disse mettendogli in mano una busta. C’era abbastanza denaro per andare e tornare.
“In realtà non rinunciavo all’idea di poter rientrare in Argentina”, ricorda Sergio. Nella casa che aveva preso in affitto all’inizio non piantava neanche un chiodo. “Tanto entro sei mesi torniamo a Buenos Aires”, ripeteva ad Ana. E fu lei a convincerlo saggiamente che invece dovevano restare. “Poi è arrivato un altro figlio e non ce ne siamo andati più”. Nell’ottobre 2013 i Gobulin furono invitati a pranzo nella residenza di Santa Marta, in Vaticano. Con Francesco parlarono dei vecchi tempi, si concessero qualche buona risata. E ci fu modo di parlare di come riformare le strutture ecclesiastiche. “Jorge continua ad essere un amico, anche se è il Papa”, dice Sergio che non nasconde il suo agnosticismo. Quando si sentono, alle volte gli risulta difficile chiamarlo Francesco. E lui gli risponde con lo stesso umorismo di quando si recava a trovarli tra le baracche. «Guarda che nell’ufficio dell’anagrafe non mi hanno cambiato il nome. Puoi continuare a chiamarmi Jorge».
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Redazione Papaboys (Fonte www.terredamerica.com/Nello Scavo)
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Perché "tornati in vita"? Aiutati da un sacerdote, e mancherebbe. Non vedo l'eccezionalità, considerato che il marito, Sergio, non si è nemmeno convertito...