È pacato e ostinato, innamorato di Dio e del Centrafrica, dove Dio lo ha portato nel 1992, e dove, da allora, vive e lavora senza risparmiarsi per arginare la povertà e per costruire la pace in un Paese che pace, da troppi anni, non trova. Ogni volta che lo incontro, padre Aurelio Gazzera, missionario carmelitano, cuneese d’origine, mi dona qualcosa: un calendario pieno di foto della sua gente, il suo libro appena uscito, una stoffa africana inzuppata di colori, i racconti del suo mondo, appassionati come quelli di una madre che non si stanca mai di parlare dei propri figli.
All’indomani dell’attacco del 1 maggio scorso alla chiesa di Fatima a Bangui, degli scontri che ne sono succeduti e che hanno lasciato 16 morti e troppi feriti, non si può non parlare di questo: “La pace è ancora molto lontana”, dice rattristato p. Aurelio. Il Centrafrica è stremato da una storia fatta di colpi di stato e un presente deciso dalla violenza delle milizie e dei gruppi armati che come funghi nascono per spartirsi il potere e un bottino tutto sommato misero. La situazione nella capitale “è più tranquilla perché lì l’Onu ha investito molto”, con Caschi blu e forze Minusca sempre presenti; ma il resto del Paese, che non interessa quasi a nessuno, nemmeno al governo attuale, è per più dell’80% in mano a gruppi ribelli”.
Non ha mai peli sulla lingua p. Aurelio: il governo di Faustin Touadera democraticamente eletto nel 2016 non ha “abbastanza forza per imporre degli accordi” con i ribelli che, nonostante i cessate il fuoco, “rimangono sul territorio, lo controllano con le loro barriere, uccidono e vivono di criminalità”. Nemmeno i Caschi blu e forze della Minusca, che succhiano risorse ingenti, “sono stati per ora in grado di mettere in campo una strategia” per imporre il disarmo e aprire una prospettiva di pace. Effimeri appaiono oggi anche “gli accordi di pace sostenuti dall’Unione Africana e da Sant’Egidio”. “Le strade per uscire sono molte e sono tutte difficili”, dice padre Aurelio che quando si sono verificati gli scontri del 1 maggio era già in Italia, per un periodo di riposo.
La priorità per lui e la Chiesa in Centrafrica è il “lavoro, che continuiamo a fare, di riflessione e di formazione: è un lavoro di lungo periodo”; ma “ci vuole qualcosa di concreto adesso” perché la situazione non ritorni nel baratro del 2013 quando era scoppiata la guerra civile tra milizie Seleka e anti-Balaka, e quando p. Aurelio, oltre ad occuparsi di dare acqua, cibo e un tetto alle migliaia di rifugiati che si erano riversati nella missione a Bozoum, aveva portato avanti in prima persona un processo di mediazione tra le milizie di ribelli. Per questo lo avevano persino soprannominato “l’uomo che piega i fucili”. Perché ci deve stare un missionario lì in mezzo? Perché “la Parola di Dio ha un messaggio di liberazione, che va in profondità”; perché “abbiamo un impegno formativo”, perché bisogna “cercare di rendere la gente attenta ai problemi, ed evitare che si lasci guidare dalla voglia di vendetta”.
A Bozoum si parla il più possibile di perdono e di riconciliazione: “funziona ed è molto sentito: una delle cose che mi dicono più in confessione riguarda proprio questo”. P. Aurelio non se ne è mai andato, nonostante i rischi personali, perché c’è da portare avanti la commissione “Gustizia e pace” e la Caritas, che “lavorano molto per aiutare tutti e per insegnare ad aiutare tutti”. La Chiesa è l’unico luogo di rifugio e di sicurezza: “anche se non sempre riesce a soddisfare tutti i bisogni, tutti sanno che la Chiesa è sempre aperta a tutti, come lo è stata negli anni della guerra civile”. Resta lì, tra la sua gente, perché poi capita che arrivano “due balordi con un mitra che distruggono tutto in pochissimo tempo”, e bisogna ricominciare. La speranza sta nel fatto che “i nostri giovani su certe cose hanno idee molto chiare e la gente inizia a capire che se si vuole un Centrafrica nuovo c’è tanto da cambiare”.
Nelle sue giornate a Bozoum ci sono anche le responsabilità delle scuole della missione, che accolgono ogni giorno 1500 studenti, e dei villaggi vicini (altri 2500 virgulti centrafricani): è particolarmente fiero del “metodo che abbiamo inventato per l’insegnamento della lingua nazionale nelle prime classi elementari. Adesso il governo ci sta pregando di allargare l’esperienza al Paese”. Poi c’è l’attività nei dispensari, il progetto sull’aids e quello per le mamme incinte. E ancora: “Ci occupiamo del settore agricolo: formazione alle nuove tecniche di coltivazione e creazione di spazi di vita.
Il fiore all’occhiello di questo lavoro sono le fiere a Bozoum e Bouar: uno spazio annuale per la gente della regione in cui “vendere i prodotti e stare in serenità”. “Quest’anno siamo arrivati a 90 mila dollari di vendite”. E il reddito pro capite in Centrafrica è di 400 dollari l’anno. La rinascita economica ha permesso anche di dare vita a una Cassa di Risparmio (5 sportelli tra Bozoum e i villaggi vicini). Oltre all’ordinario, nei prossimi mesi nascerà una radio comunitaria e poi ci sono “le scuole da allargare”. Nonostante tutto questo fiume di attività, che p. Aurelio elenca con la semplicità di chi spiega gli ingredienti di una ricetta, è nato anche un libro, che raccoglie le pagine del diario che dal 2011 tiene regolarmente su un blog. “Coraggio”, s’intitola il volume, parola che ama spesso ripetere. In quelle pagine c’è la “vita” del Centrafrica, la “bellezza della vita missionaria e del lavoro nel Paese” nonostante tutto; perché “accanto al nostro piccolo lavoro e al nostro operare c’è la grande opera di Dio che fa fruttificare”.
Fonte it.aleteia.org
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