In prossimità del quarto anniversario della sua elezione, il Papa dei ponti torna sul tema del dialogo. Lo fa sabato per i 50 anni di telefono amico, lo dice domenica nell’incontro coi bambini della Parrocchia nella Borgata Ottavia; l’aveva detto venerdì, appena tornato dai suoi esercizi spirituali, quando aveva compiuto il gesto concretissimo del dialogo avviando le consultazioni aperte anche ai laici per raccogliere indicazioni circa il sostituto di Vallini.
Caratteristica del dialogo è quella di essere un ragionamento che si svolge almeno tra due persone: per questo motivo, ascoltare solo una parte del discorso, alcune parole, uno dei due, significa avere sempre la percezione dell’incompletezza, dell’oscillazione, dell’ambiguità. È quanto i detrattori, per lo più cattolici, addebitano con frequenza a Papa Francesco. È ovvio che un modo di ragionare aperto appaia come incompleto; e, anzi, questa incompletezza è parte dell’atteggiamento dialogico.
Un discorso chiuso, perfetto, lascia aperto solo un sistema binario, solo due possibili reazioni. O quella del dissenso, dell’opposizione alla tesi, oppure quella dell’adeguamento, dell’accettazione: l’applauso, il like. Per entrare in dialogo invece c’è bisogno di un atteggiamento di amicizia, una premessa di simpatia. Dico simpatia e amicizia, uso cioè parole “soft”, perché voglio chiarire che nemico del dialogo è non solo la violenza, l’atteggiamento ostile, ma anche l’interesse. Non sa ascoltare – cioè entrare in dialogo – non solo il nemico ma anche il fan, il tifoso, l’adoratore a prescindere. Anche recentemente, nell’intervista a Die Zeit, Papa Francesco ha detto “quando mi idealizzano mi sento aggredito”. Ascoltare Papa Francesco significa entrare in dialogo con lui. Significa abbandonare una posizione meccanica – non importa se a favore o contro – per accettare un dialogo interiore, un discorso tra me e me, che è nato dal quel discorso tra me e lui che origina dalle parole del Papa: discorso che alla fine termina con un dialogo, cioè con un “tra noi”.
Proprio l’intervista a Die Zeit è un esempio di quel orecchio “amichevole” necessario per capire il Papa e per non pensare che il suo discorso “è ambiguo”. Quanti giornali hanno titolato che il Papa “ha aperto il sacerdozio agli uomini sposati” quando invece la frase esplicita del pontefice era stata che ogni riflessione doveva partire dal presupposto che il celibato obbligatorio non andasse abolito? Il fatto è che il modo di parlare del Papa, il suo pensiero dialogico, sfugge allo steccato dell’out- out, dell’essere pro o contro, per sforzarsi invece di inserire nella conversazione, cioè nel dialogo, nuove considerazioni, nuove possibilità. Nel caso concreto dell’intervista, il messaggio era che, partendo dalla certezza del celibato sacerdotale, poiché quest’ultimo non è né un dogma né un assoluto, occorreva certo riflettere su come affidare alcune funzioni a uomini sposati di provata fede laddove è forte la scarsità di vocazioni sacerdotali.
L’atteggiamento dialogico contenuto nel modo di essere di Papa Francesco è, al giorno d’oggi, più di una possibilità: è una necessità da soddisfare con impegno, perché è faticosa, in tutti i campi della vita civile. Il Papa va contestualizzato, spiegato, argomentato, seguito verso punti di vista alternativi e spesso inesplorati. Ma non è la stessa cosa che accade ogni giorno a ciascuno di noi? A chi di noi non è mai accaduto di sentire sulla bocca di altri le proprie frasi e di aver esclamato: no, non è così, in realtà io avevo anche detto quest’altro?
Il dialogo cui ci spinge Papa Francesco – e di cui il nostro tempo ha tanto bisogno – è faticoso non solo perché richiede di essere preparati e distaccati dalle proprie opinioni, ma soprattutto perché mette in crisi la nostra appartenenza: il sapere, fin da subito e già da prima, chi ha ragione e chi ha torto e che quelli giusti sono quelli che stanno con me. Anzi, che io sono giusto perché sono uno di quelli che sta con loro.
Di Don Mauro Leonardi
Articolo tratto da IlFaroDiRoma