Res Publica et Societas

La testimonianza di Francesco. «Perché mi sono arruolato volontario contro il Coronavirus»

«Perché mi sono arruolato volontario contro il Coronavirus»

Covid-19 Ansa/Matteo Corner

Una bellissima intervista a Francesco Tarantini, infermiere dell’Istituto Besta di Milano che ha chiesto di andare in prima linea contro il Covid19 agli Spedali di Brescia. Articolo tratto da www.ilsole24ore.com di Luca Benecchi

Il racconto

«Signora buonasera, non ci conosciamo sono Francesco l’infermiere che sta assistendo suo marito Claudio in rianimazione, siccome ora è sveglio se la sente di salutarlo? Si ricordi che Claudio ha una “tracheo” per cui non può parlarle, potrà comunicare solo con sguardi e gesti per quello che potrà. Le posso fare una videochiamata? Pochi secondi dopo la videochiamata è in corso e gli occhi di Claudio si illuminano di una luce particolare quando sullo schermo appaiono i volti della moglie e dei figli che lo salutano, e le loro voci rotte dall’emozione riempiono il box della rianimazione. E io non riesco a trattenere le lacrime…».

Leggo il post e penso al tempo: penso all’uomo di 54 anni che ha scritto queste parole, un messaggio su un social, e penso pure al ragazzo che ho conosciuto, quasi quarant’anni fa, la stessa scuola, la stessa classe al liceo. Ci siamo persi, ci siamo ritrovati. Penso a tutta la vita in mezzo, a ciò che siamo oggi, e allora scrivo a mia volta: «Dove sei?». Poi: Invio.

Quest’uomo di cui ho osservato le immagini condivise e di cui ho letto i post (sotto qualcuno anche i miei like) è Francesco, anzi Tarantini Francesco come da registro di classe, ed è un infermiere di anestesia e rianimazione all’Istituto Neurologico, lavora all’istituto neurologico Besta di Milano e insegna alla Statale ma ora dalle foto capisco che è in prima linea contro il Covid19. Maschera, tuta, guanti, insomma tutto quell’armamentario dell’emergenza e della dedizione che da qualche settimane riempie i nostri occhi.

Dentro però stavolta c’è Tarantini Francesco, io ad aprire l’appello lui a chiuderlo. Ed allora, di colpo, le storie di impegno che ho letto hanno un volto e un nome che conosco bene. «Dove sei», allora… Mi risponde che si trova agli Spedali Civili di Brescia e che è lì perché ha scelto di esserci.

Aspetta spiegami chiedo…

Era il 21 marzo, saranno state le undici quando mi squilla il cellulare, sul display il nome della mia responsabile. Ciao Clara, che succede?, dico. E lei: sei sempre disponibile ad andare “in comando”, che vuol dire andare a lavorare, in un altro ospedale?

Quindi non ti hanno chiamato, ti sei offerto volontario?

Sì, quando il numero dei contagiati ha cominciato a crescere e tra questi si contavano anche i colleghi, ho iniziato a documentarmi su questa nuova epidemia (non era ancora stato dichiarato lo stato di pandemia); ho fatto corsi e-learning dell’Istituto Superiore di Sanità; ho iniziato a leggere articoli scientifici su terapie, cure, tecniche di pronazione. Leggere i giornali, ascoltare le notizie in radio e TV era sempre più doloroso e angosciante.

In sala operatoria ci confrontavamo fra colleghi infermieri, anestesisti, chirurghi, e abbiamo cominciato a considerare che noi, al Besta, eravamo un’isola felice. Noi non stavamo subendo tutti i disagi che centinaia di nostri colleghi stavano vivendo in quel momento. Allora spontaneamente in molti di noi è nato il desiderio di poter aiutare chi era in difficoltà; abbiamo quindi manifestato alla direzione dell’Istituto la disponibilità a essere distaccati presso altri ospedali della Lombardia coinvolti direttamente nella gestione dei pazienti Covid19. E dire che all’inizio sembrava tutto diverso….

In che senso?

A metà gennaio, quando hanno iniziato a circolare le prime notizie dalla Cina pareva che questo nuovo virus SarsCov2 non ci avrebbe mai potuto raggiungere, la percezione era che non fosse un nostro problema, anche se in sala operatoria, sulle chat dei gruppi professionali ed interprofessionali, si scherzava sul vecchio slogan, ripreso dal film di Bellocchio, “La Cina è vicina”, sottolineando il fatto che oggi poteva solo essersi avvicinata ancor di più rispetto al 1967. In realtà tanti erano dubbiosi: «…ma no tranquilli, vedrete che è poco più di un’influenza … come sempre sarà un problema solo per chi ha comorbidità gravi…».

Poi giorno dopo giorno il tono dei messaggi cambia: il timore e la preoccupazione per un problema sanitario reale e concreto. Dopo il 30 gennaio, dopo il ricovero dei due turisti cinesi allo Spallanzani di Roma e il primo caso a Codogno, per noi tutto muta. Da quel momento le nostre chat iniziano a riempirsi di domande, dubbi, paure: «…io ero in turno in PS il 18 febbraio, quando è arrivato…», «…si anch’io c’ero il 20 febbraio quando ce l’hanno portato in rianimazione…», «…dobbiamo preoccuparci?…», «…non mi ricordo se avevamo tutti le mascherine…».

Dopo poco abbiamo avuto un ulteriore cambio di registro nei messaggi: «…raga, ci stanno isolando…», «…non riusciamo a tornare a casa…», «…stiamo facendo turni massacranti…», «…voi avete tutti mascherine e camici?…».

Torniamo alla telefonata della tua responsabile…

Confermo che sono pronto ad andare dove serve e lei mi spiega che era stata contattata dal direttore generale perché c’era un urgente bisogno agli Spedali Civili di Brescia, in seria difficoltà con il personale infermieristico, e che lei aveva pensato di mandare me e la mia collega Angela Leone. «Ok Clara, sono disponibile. Iniziamo già lunedì mattina?», dico. Mi risponde che no, che dovevo presentarmi a Brescia quello stesso pomeriggio.

Cosa ti è passato per la testa mentre andavi?

Il viaggio per Brescia è stato particolare. Guido spesso sull’A4 per andare in montagna in Val Camonica, a Ponte di Legno, ma vederla quel sabato pomeriggio completamente deserta, e dico deserta, era quasi surreale. Ricordo ancora, e l’ho registrato perché mi aveva emozionato, che sono entrato a Brescia con la radio che trasmetteva “Eye in The Sky” dei The Alan Parsons Project.

Di quel giorno ricordo tutto, così posso dirti che era le 15.45 quando sono entrato in ospedale, che poi ho incontrato la dottoressa Loredana Affò e la mia collega Angela Leone, che era arrivata poco prima. Che, dopo un primo momento in cui mi hanno racconto quale fosse la situazione e indicato dove avrei dormito, mi hanno accompagnato alla Tensostruttura del Pronto Soccorso: la mia prima assegnazione.

Mentre seguivo le procedure di vestizione e svestizione, area pulita vestizione, area sporca svestizione, percorso pulito, percorso sporco, rischio contagio, materiali e procedure emergenza e urgenza, ho ripensato alle parole di Aaron Mishler, un collega che tra il 2014-2015 era stato impegnato nell’epidemia di Ebola in Liberia: “There is no emergency in a pandemic”, ovvero non si entra in zona rossa senza aver indossato i necessari dispositivi, se tu ti ammali non potrai essere più d’aiuto a nessuno, anzi qualcuno dovrà aiutare te!

Covid-19 (Claudio Peri)

Cosa hai visto dentro la tensostruttura?

C’erano oltre sessanta pazienti – la tensostruttura ne può accogliere 75 – la maggior parte con ossigenoterapia in venturi o reservoir, in attesa di essere valutati per un trasferimento in reparto di degenza per le cure del caso. Di fatto quel giorno quella che doveva solo essere una breve visita per vedere l’organizzazione della struttura all’interno, si è trasformata in un primo immediato turno di lavoro.

Ho così iniziato a conoscere Sheila, Carla, Raffaele (Ciollo per gli amici), Gaia, Gloria, Alberto, Salvatore, Stefano, Fabio, Beppe, Maina, Elena: questi sono solo alcuni dei nomi di medici, infermieri, soccorritori, movieri, che si avvicendano H24 sette giorni su sette. Poco dopo mi è stato chiesto di coprire alcuni turni nei reparti di rianimazione Covid in sofferenza per le assenze di alcuni colleghi risultati positivi al tampone.

Qui ho avuto modo di vedere e vivere in prima persona la fatica e la sofferenza del personale impegnato da settimane nelle rianimazioni, medici ed infermieri magari appena rientrati da un mese di assenza per essersi ammalati di Covid-19 assistendo i pazienti: Laura, Marco, Manuel, Isa, Silvia, e tanti altri che mi hanno accolto e guidato in questa nuova esperienza.

Ma soprattutto ho toccato con mano la fatica e il dolore dei pazienti ricoverati da giorni in rianimazione. Pazienti tracheotomizzati, pazienti intubati e tenuti in coma farmacologico per effettuare manovre di pronazione o per poterli sottoporre ad ECMO (ossigenazione extra corporea a membrana).

È stato in questa occasione che, con Laura, abbiamo visto comparire la gioia negli occhi di Claudio, tracheotomizzato in rianimazione Covid-6, quando sullo schermo del mio cellulare sono apparsi moglie e figli e, pur non potendo parlare, ha potuto salutarli con gli occhi lucidi e con i gesti faticosi delle braccia. E io non sono riuscito a trattenere le mie lacrime di gioia e commozione.

Foto copertina tgcom24

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