Categorie: Italiae et Ecclesia

La vita consacrata e la sua missione nella Chiesa (Jorge Mario Bergoglio)

 

Tra il materiale inedito raccolto dalla rivista Vida religiosa del gesuita Bergoglio – oggi Papa Francesco – sulla vita consacrata, vi è il suo intervento nel Sinodo celebrato nel 1994 sulla vita consacrata e la sua missione nella Chiesa e nel mondo. Questo intervento fu tenuto nella XVI congregazione generale, il 13 ottobre 1994 dall’allora Vescovo ausiliare di Buenos Aires Jorge Mario Bergoglio.

1. Quando il Concilio ci dice che la vita religiosa è un dono dello Spirito alla Chiesa, sottolinea non solo la natura del dono, ma anche la realtà a cui il dono è offerto: la Chiesa, il corpo ecclesiale. Forse è per questo, secondo il mio parere, che è molto più ricco e intenso quanto viene detto sulla vita religiosa nella Lumen gentium di quanto si dice nel Perfectae caritatis. Questo riferimento serva per determinare la cornice nella quale si deve considerare la vita religiosa, per non correre il rischio di disorientarci e disperderci, cadendo nell’attitudine di esaltare le famiglie religiose per il loro «carisma fondazionale», ignorando l’appartenenza alla totalità della Chiesa. La cornice è la Chiesa: la vita consacrata è dono alla Chiesa, nasce nella Chiesa, cresce nella Chiesa, è tutta orientata alla Chiesa.

2. Il Documento di Santo Domingo quando parla dell’evangelizzazione, esprime con chiarezza questo principio: «L’opera evangelizzatrice, ispirata dallo Spirito Santo, che all’inizio ebbe come generosi protagonisti soprattutto i membri di ordini religiosi, fu un’opera congiunta di tutto il popolo dì Dio, di vescovi, sacerdoti, religiosi, religiose e fedeli laici» (SD 19) e lo attualizza per oggi: «Il soggetto della nuova evangelizzazione è tutta la comunità ecclesiale secondo la natura di ciascuno: noi vescovi in comunione con il Papa, i nostri presbiteri e diaconi, i religiosi e le religiose e tutti gli uomini e le donne che costituiamo il popolo di Dio» (SD 25). La chiamata all’evangelizzazione è oggi al centro della missione della Chiesa e spetta a tutti: chierici, religiosi e laici. In essa devono impegnarsi le migliori energie e le più valide programmazioni dei prossimi anni. In essa devono cooperare gli Istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, ciascuno conforme il proprio carisma e senso apostolico» (1). Questa è la cornice. Va sottolineato un particolare: all’interno di questo ambito i religiosi sono stati certo all’avanguardia: «L’urgenza della nuova evangelizzazione in America Latina esige che i religiosi, oggi come ieri, e in collaborazione con i loro Pastori continuino a rimanere all’avanguardia della predicazione» (2). Già Paolo VI lo diceva esplicitamente al n. 69 della Evangelii nuntiandi.

3. Ho detto che la realtà ecclesiale era una cornice nella quale inserire la vita religiosa. È evidente che uso un termine di indole «logica» per poter esplicitare le «relazioni» che qui è necessario evidenziare. Si tratta, quindi, di una semplice questione metodologica: non si può riflettere sulla vita consacrata se non all’interno della Chiesa. Mi piace pensare queste relazioni in termini di tensione, per cui la cornice sarà cornice di tensioni. Così va inteso, perché è una cornice di vita. Ogni tensione si realizza fra polarità; quindi, come si risolve? Una tensione non si può risolvere per assimilazione di uno dei poli, e neppure per sintesi (di tipo hegeliano) che annulli le polarità. La tensione (e in questo caso la tensione ecclesiale) deve risolversi in un piano superiore, che non sia sintesi, ma che la soluzione contenga virtualmente le polarità che producono le tensioni. In tal modo si mantiene l’organicità della vita e si comprende la capacità di un organismo vivo (come è la Chiesa) di retrocedere verso posizioni apparentemente o realmente già superate: se è possibile retrocedere è perché ha mantenuto in sé la virtualità di ciascuno dei poli in tensione.

4. Forse si può comprendere meglio tutto ciò considerando il tema del pluralismo. Giovanni Paolo II diceva ai vescovi argentini, a Buenos Aires, il 12 aprile 1987, parlando dell’unità della Chiesa: «Questa unità non è uniformità; effettivamente, non annulla la legittima diversità di accenti pastorali e di priorità o iniziative in consonanza con le diverse necessità e circostanze delle vostre diocesi. Ma è anche certo che l’unità esige sempre che le particolarità si integrino in una armonia che le superi senza annullarle». Rispetto a questo voglio ricordarvi una delle conclusioni del Sinodo straordinario dei vescovi del 1985, che corrisponde alla sottile ma decisiva distinzione tra pluriformità e pluralismo: «La pluriformità è una vera ricchezza e apporta con sé una pienezza, è essa stessa cattolicità, mentre il pluralismo fondato sulla giustapposizione di posizioni opposte, conduce alla dissoluzione, alla distruzione, alla perdita della propria identità» (3). Forse ciò che differenzia sostanzialmente il pluralismo dalla pluriformità è che questa ha una realtà centripeta che armonizza polarità diverse e in tensione, rendendo possibile la realtà di una «unitas ordinis», mentre il pluralismo è una semplice «unitas accumulationis».

5. La vita religiosa va concepita inserita nella pluridimensionalità che costituisce «la Chiesa e attraverso la quale la Chiesa si manifesta». Questa pluriformità «ordina» e dà senso ai diversi carismi. Il carisma di una famiglia religiosa non è un patrimonio chiuso che bisogna custodire, ma e piuttosto una «sfaccettatura integrata» nel corpo della Chiesa, attratta verso il centro, che è Cristo. In un certo senso, una famiglia religiosa è famiglia in quanto è integrata nella grande famiglia del santo e fedele popolo di Dio. Se non fosse così, sarebbe «plurale» e, pertanto, sarebbe una setta, perché il pluralismo che si oppone alla pluridimensionalità è una semplice pluralità di convivenza, senza vera integrazione… e con la scusa di «essere plurale» si difendono particolarismi chiusi come monadi egoiste. Vorrei fare un’altra precisazione rispetto al carisma: corriamo il rischio di considerarlo solamente come un «contenuto», ma non è così. Ogni carisma di fondazione include un «contenuto», ma, al tempo stesso, anche un «modo d’essere», un «modo di procedere» peculiari. Questo è importante quando di tratta di «aggiornare» un carisma di fondazione.

6. Il soggetto e l’oggetto dell’evangelizzazione è il santo popolo di Dio. In questo popolo camminano, peregrinano nella fede le famiglie religiose. Per il momento vorrei risaltare solo un aspetto di questa realtà: il «sentire» del popolo fedele di Dio. Il nostro popolo fedele «sente bene» la sua totalità. Si tratta del sensus Ecclesiae, del sensus Christi nella Chiesa. Una famiglia religiosa, attraverso le tensioni proprie della pluridimensionalità, partecipa di questo «sentire» del santo popolo di Dio. La Chiesa ha voluto definire un aspetto di questo sentire: la sua infallibilità. Il popolo di Dio, nel suo insieme, è infallibile in credendo (4). Questo è importante per una famiglia religiosa. La sua vita dipende dall’adeguarsi a questo sentire del popolo fedele di Dio, che non può errare nel credere. La Gerarchia sarà infallibile in docendo (alla vita consacrata non le è concessa questa infallibilità; in caso contrario ci sarebbe un «magistero parallelo»)… mentre le appartiene l’altra infallibilità: in credendo, nella misura in cui partecipa e non si allontana dal «sentire nella fede» del santo popolo fedele di Dio.

7. Tra i «rinnovamenti» sbagliati della vita religiosa vanno annoverati i fondamentalismi restaurazionisti ai margini del reale e concreto peregrinare del santo popolo fedele di Dio. Essi si creano coperture di spiritualità inseriti a margine del cammino del popolo fedele. Un rinnovamento della vita religiosa deve realizzarsi sempre all’interno del peregrinare nella fede del popolo di Dio, alla luce del suo «sentire», del suo «modo di credere» infallibile. Le élites religiose sono state e sono sempre pericolose: portano in sé l’eresia essena che rifiorisce ad ogni momento in questi messianismi.

8. La vita religiosa dovrebbe essere considerata nella cornice ecclesiale delle tensioni. La prima tensione, quella tra la famiglia religiosa e il popolo fedele di Dio, a volte si risolve male e si conforma in modo peccaminoso. Puebla richiama l’attenzione su questo punto: «Esistono tensioni… si può perdere di vista la missione pastorale del vescovo o il carisma proprio dell’Istituto» (736s). Anche il Papa lo indica: «Le relazioni tra vescovi e religiosi sono, in generale, soddisfacenti… Non sono mancate, tuttavia, in determinate situazioni, alcune incomprensioni e forti contrasti che non corrispondono alla vera ecclesiologia di comunione e perturbano la pace e la concordia, influendo negativamente sulla evangelizzazione della Chiesa» (5). Questa tensione (e le sue malformazioni) si risolve con una concezione ecclesiale di comunione e di partecipazione: «Il rinnovamento della vita consacrata si realizza con un’intensificazione della comunione e del servizio ecclesiale» (6).

9. In questa stessa linea voglio segnalare una seconda tensione che spesso oscura l’apporto che la vita religiosa dà alla Chiesa: la tensione tra Chiesa particolare e la Chiesa universale che, in una famiglia religiosa si riflette in modo particolare per l’universalità dell’Istituto. Un’errata soluzione di questa tensione ha portato (e a volte porta) a un uso abusivo della «esenzione» (o le sue analogie). Appaiono allora religiosi o comunità «sciolte», senza alcun inserimento concreto. Pretendono di essere talmente universali che diventano non-particolari. La vera universalità si esprime, prende corpo, nel particolare. Un «buon particolare» non è mai astrazione dall’universale… è vita concreta in cui è già presente l’universale. Ne deriva che la maggiore perfezione, in questo senso, di un religioso o di una comunità religiosa, è poter esplicitare l’universale concreto del suo essere; il contrario può essere il particolare travisato, come l’internazionalismo: «Ovunque siate nel mondo, siete, per la vostra vocazione, a servizio della Chiesa universale, attraverso la vostra missione in una determinata Chiesa locale. La vostra vocazione per la Chiesa universale si realizza nelle strutture della Chiesa locale. È necessario fare tutto il possibile perché la vita consacrata si sviluppi in ciascuna delle Chiese locali, contribuisca alla sua edificazione spirituale e costituisca una sua forza speciale» (7). «La Chiesa particolare costituisce lo spazio storico nel quale una vocazione si esprime realmente e realizza il suo compito apostolico» (MR 23). L’espressione «spazio storico» si riferisce al tempo e allo spazio, lasciando aperta ogni situazione in cui si vive l’universale concreto. I Lineamenta

lo esplicitano: «La relazione particolare tra la vita consacrata e la Chiesa particolare è stata evidenziata dal decreto conciliareChristus Dominus, in cui si afferma che i religiosi sacerdoti appartengono, a vero titolo, al presbiterio diocesano… gli altri membri degli Istituti di vita consacrata, sia uomini che donne, appartengono alla famiglia diocesana e offrono un notevole apporto alla Gerarchia» (39).

10. All’interno della cornice ecclesiale possiamo individuare una terza tensione, quella che esiste tra il proprio carisma e le necessità del mondo. I Lineamenta la esplicitano: «Il rinnovamento della vita consacrata [si attuerà] con una intensificazione della comunione e del servizio ecclesiale, in consonanza col proprio carisma e le nuove necessità della Chiesa e del mondo» (31d). Il Vaticano II, parlando dell’adeguato rinnovamento della vita religiosa, coniuga cinque aspetti: ritorno alle fonti, cioè ritorno al Cristo del Vangelo; ritorno allo spirito dei fondatori; comunione nella vita della Chiesa; conoscenza del mondo moderno; rinnovamento interiore. I cinque aspetti sono in reciproca tensione e, in tal modo, presentano una visione reale dell’adeguato rinnovamento voluto dalla Chiesa.

11. Le necessità non devono livellare malamente la diversità dei carismi, ma neppure questi devono ridursi a uno stile particolarista che non permetta di vedere e di farsi carico delle necessità. In quest’ultimo caso è in gioco la questione del servizio; nel caso precedente (livellamento) si gioca l’originalità del servizio. Ci viene richiesto un costante atteggiamento deuteronomico: ricordare per farsi carico qui e adesso… Questo significa consolidare la Chiesa, ogni giorno, «dal posto che mi compete nella Chiesa» (il mio carisma), ma contemporaneamente consolidare la Chiesa permettendo che le necessità si confrontino con il carisma della famiglia religiosa per ricrearlo costantemente. Questa tensione tra il proprio carisma e le necessità del tempo attuale si risolve con una maggiore coscienza del senso storico, secondo lo stile di san Vincenzo di Lérins: …ut annis consolidetur, dilatetur tempore, sublimetur aetate. Una soluzione errata di questa tensione conduce sempre a un riduzionismo dell’universale.

12. Questo mi offre l’opportunità di toccare un tema che è presente in tutta questa problematica. Nelle ultime decadi sono sorte soluzioni di tipo funzionalista in cui la tensione universale-particolare e la tensione carisma-necessità si risolvono a un livello insufficiente che annulla le virtualità proprie di ogni polo in tensione: mi riferisco alle diverse forme di internazionalismo. La funzionalità dell’internazionalismo riempie lo spazio che, a causa dell’errata soluzione delle tensioni, lascia vuoto il senso dell’universale. Probabilmente proprio questa è la radice del più grave problema della vita consacrata, oggi. Ne accenno utilizzando una categoria di Henri De Lubac: «La mondanità spirituale». Lo «spirito del mondo» entra nel midollo stesso dell’appartenenza della vita consacrata alla Chiesa sotto forma di funzionalità. I mezzi tendono a occupare il luogo dei fini, le cause strumentali quello delle cause finali. Ci può essere una mondanità spirituale quando ci si preoccupa eccessivamente del proprio carisma prescindendo dal suo reale inserimento nel santo popolo di Dio, confrontandosi con le necessità concrete della storia… e anziché essere «un dono dello Spirito alla Chiesa», la vita religiosa, così configurata, finisce per essere un pezzo da museo o un «possedimento» chiuso in se stesso e non messo al servizio della Chiesa. «La Chiesa non è stata istituita per essere un’organizzazione di attività, ma come Corpo di Cristo per dare testimonianza» (MR 20). Le funzioni, le attività sono a servizio della testimonianza del Corpo di Cristo.

13. Quando cediamo al funzionalismo diventiamo un’impresa. La mondanità spirituale, secondo De Lubac, è «il maggior pericolo, la tentazione più grave, quella che sempre rinasce – insidiosamente -quando tutte le altre sono state vinte e prende nuovo vigore proprio da queste vittorie». La definisce così: «Quello che praticamente si presenta come un distacco dall’altra mondanità, ma il cui ideale morale e anche spirituale sarebbe, anziché la gloria del Signore, l’uomo e la sua perfezione. La mondanità spirituale non è altro che un’attitudine radicalmente antropocentrica. Questa attitudine sarebbe imperdonabile nel caso di un uomo che fosse dotato di tutte le perfezioni spirituali, ma che non lo conducessero a Dio. Se questa mondanità spirituale invadesse la Chiesa e tentasse di corromperla attaccandola nel suo stesso principio, sarebbe infinitamente più disastrosa di qualunque altra mondanità semplicemente morale».

14. Possiamo, così, continuare a riflettere sulla vita religiosa nella Chiesa con il metodo delle «tensioni bipolari» e la loro soluzione in un piano superiore che non sia sintesi e che non annulli la virtualità di ogni polo in tensione. Ma, per concludere, vorrei riferirmi a una quarta tensione, a mio parere fondamentale, ossia alla tensione che soggiace all’esperienza dell’inserimento.

15. Per meglio comprendere questo, conviene ricordare il luogo che occupa il trattato sulla vita religiosa nella Lumen gentium: tra il capitolo che tratta dell’universale vocazione alla santità e quello che si riferisce all’indole escatologica della Chiesa. L’ultimo paragrafo del cap. V conclude con un’avvertenza escatologica che introduce il tema della vita religiosa (LG 42). Dice, tenendo presente san Paolo: «Quelli che usano di questo mondo non si attacchino ad esso, perché passa la scena di questo mondo» (cf 1Cor 7,31). È il famoso approccio del «come-se» paolino. Non è una fuga mundi,ma si tratta di assumere le realtà terrene, collocandole in una relatività fondamentale, espressa in questo «come-se». Qui si apre una breccia rivolta verso una trascendenza che non è un trascendere verso l’esterno, ma verso l’interno, verso la dinamica stessa della vita. Si tratta di mettere il trascendente nel nucleo stesso della vita e dell’attività quotidiana della nostra consegna. Questa dimensione configura una «consegna che crea una speciale relazione con il servizio e la gloria di Dio» (LG 44). Lo stesso n. 44, spiegando questa speciale relazione, dice che la vita religiosa è:

– segno che può e deve attrarre efficacemente a compiere, senza venir meno, la propria vocazione cristiana;

– segno che il popolo di Dio non ha cittadinanza permanente in questo mondo;

– segno che manifesta meglio a tutti i credenti i beni celesti;

– segno che offre una testimonianza della vita nuova ed eterna ottenuta dalla risurrezione di Cristo;

– segno che preannuncia la risurrezione futura e la gloria del regno celeste. In una parola: questo segno inserisce l’escatologia nella vita.

16. Seguendo questo messaggio, la vita consacrata non può prescindere dalla dimensione di inserimento. Concepirla senza di essa è snaturarla, è tendere a riduzionismi della tensione fondante. Qui la tensione si stabilisce tra la vita attuale e la dimensione escatologica, tra il servizio apostolico concreto e il messaggio escatologico. Ogni vita consacrata deve essere inserita nell’ambito in cui lavora apostolicamente. Essere religioso non significa «risparmiarsi» per la vita eterna… ma è addentrarsi, come il Verbo di Dio, nella quotidianità del lavoro, mostrando il volto del Padre che attende, del Figlio che rifà tutte le cose, dello Spirito che anima. Inserirsi vuol dire portare l’esempio del limite dell’Incarnazione del Verbo fino all’ambito più intensamente drammatico. Ci si può interrogare, a questo punto, sul fatto, l’ampiezza e la qualità dell’inserimento della vita religiosa nella missione che la Chiesa le affida attraverso la Gerarchia, seguendo i carismi di fondazione. Non è necessario forzare molto l’immaginazione per vedere le «decadenze» emerse negli Istituti religiosi per un’errata soluzione di questa tensione bipolare: il lavoro quotidiano e la trascendenza escatologica che deve essere «inserita» nel nucleo stesso della vita.

17. Per concludere, un riferimento a come queste realtà sono state tenute presenti nella legislazione della Chiesa. Il nuovo Codice ha assunto questi aspetti trattando della vita consacrata. Ha cercato un’espressione adeguata di questo dono dello Spirito alla Chiesa. Ha esplicitato il riconoscimento e la protezione dello spirito proprio di ogni Istituto, lasciando nel diritto comune uno spazio vasto per il diritto particolare. Garantisce la flessibilità della nuova legislazione, specialmente nelle norme disciplinari, dovuto al principio di sussidiarietà. Fa propri i principi promulgati dal Concilio Vaticano II. Questi quattro aspetti o principi di legislazione convergono in un unico fondamento della nuova codificazione, per il quale si riconosce la natura propria, l’indole, il fine e la missione di ogni Istituto, secondo l’intenzione del Fondatore e i doni a lui concessi per il bene di tutta la Chiesa. La Chiesa Madre continua il suo cammino spiegando la sua pluridimensionale ricchezza attorno a Gesù Cristo, l’unico convocatore legittimo, l’Autore e il Perfezionatore della fede. Noi, nella nostra vita e nella nostra riflessione seguiamo questi passi per ottenere che si manifesti sempre più e sempre meglio questo «dono dello Spirito alla Chiesa».

Jorge Mario Bergoglio*

(tratto da Vita consacrata, n. 50, 2014/1)

* Jorge Mario Bergoglio, Obispo Auxiliar de Buenos Aires. Sinodo “La vita consagrada y su misión en la Iglesia y en el mundo”, Roma, 1994, in «Vida Religiosa», vol. 115, n. 7, Julio-Septiembre 2013.

Note

1) Lineamenti Sinodo 1994, n. 42.

2) Lettera apostolica Icammini del Vangelo, 1990, n. 24.

3) Relazione finale, II, C, 2.

4) Cf Lumen gentium, n. 12.

5) I cammini del Vangelo, n. 22.

6) Lìneamenta, 31d.

7) Giovanni Paolo II, all’Unione dei Superiori generali, 24 novembre 1978.

Redazione Papaboys (Fonte dimensionesperanza.it/Fausto Ferrari)

 

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