La vita a Hebron: palestinesi “armati” di telecamere

“Qui abito, in questa casa sono nata. E qui voglio continuare a vivere anche se è difficile perché è come stare in prigione”. Nermine è una donna palestinese di 31 anni, madre di quattro figli. Nelle mani tiene stretta una videocamera e l’accarezza come un cacciatore farebbe con il suo fucile. “È la mia unica arma – dice con un sorriso amaro – per difendermi dai soprusi e dagli abusi che ogni giorno la mia famiglia, e molte altre che abitano nelle vicinanze, deve subire”. Dalla terrazza della sua casa mostra i suoi “nemici”: i “settlers”, ovvero i coloni ebrei ultraortodossi, provenienti soprattutto da Usa e Australia, che si sono insediati illegalmente nel cuore della città vecchia seguendo un processo di espansione territoriale nato dopo il 1967 (Guerra dei Sei giorni) e proseguito negli anni successivi, fino ai nostri giorni.

Siamo a El Khalil, Hebron in ebraico, la città più popolosa dei territori palestinesi, con i suoi 300mila abitanti cui vanno aggiunti poche migliaia di coloni ebrei, blindati e protetti dai soldati israeliani. Posta a circa 30 km a sud di Gerusalemme, la città è nota per le sue cave di pietra bianca, con cui vengono ricoperte tutte le abitazioni della regione, per i suoi uliveti, per le fabbriche di ceramiche e di vetri. Un dedalo di viuzze strette che si innervano tra case con tetti piani e piccoli negozi. Ma Hebron è soprattutto la città dove è posta la tomba dei Patriarchi, luogo sacro per ebrei, cristiani e musulmani, la grotta di Machpela per gli ebrei, la moschea di Abramo per i musulmani. Qui, secondo la tradizione, furono sepolti Abramo, sua moglie Sara, Isacco e Giacobbe. La presenza della grotta la rende ancora di più luogo di contesa e di odio. In conformità con gli Accordi di Oslo del 1993, firmati da Israele e l’Organizzazione per la liberazione per la Palestina (Olp) la città è divisa in due settori: H1, governato dalle autorità palestinesi, e H2, sotto il controllo dell’esercito israeliano. E per monitorare la tenuta di questi accordi, promuovere la sicurezza dei palestinesi e, quindi, la stabilità della città, è presente anche una missione di osservatori internazionali (Temporary international presence in Hebron, Tiph), armati di sole macchine fotografiche per documentare le illegalità delle parti in lotta.

A differenza di altre città dei territori palestinesi, Hebron è l’unica ad avere delle colonie ebraiche al suo interno e non all’esterno, fatto che rende la convivenza con i palestinesi praticamente impossibile. Soprattutto dopo la strage nella moschea di Abramo, compiuta nel 1994 dal colono statunitense Baruch Goldstein, quando a terra rimasero 29 fedeli raccolti in preghiera. Tensioni tornate alle stelle dopo il rapimento e l’uccisione, da parte di palestinesi affiliati ad Hamas, di tre giovani coloni, l’estate scorsa, avvenuta nel vicino villaggio di Halhul. Per tutto questo Hebron è una città sigillata dai check point israeliani posti a difesa dei coloni che non mancano di attaccare e provocare gli abitanti palestinesi della zona H2, come Nermine, appunto. Dalla sua terrazza ci mostra i tetti dei palazzi vicini, presidiati dai militari israeliani e le finestre delle abitazioni dei settlers da dove spuntano bandiere con la stella di David. “Camminare in queste zone e nel suk è rischioso – dice la donna – è facile infatti che i coloni dall’alto dei tetti ti gettino addosso acqua sporca, rifiuti e sassi”. Per evitare rischi maggiori sono state poste delle reti di protezione. “Ogni volta che ciò accade io e altri abitanti palestinesi filmiamo tutto con la videocamera. I filmati delle violenze e degli abusi dei coloni – spiega Nermine – vengono poi consegnati ai membri dell’Ong israeliana B’Tselem, che si occupa di diritti umani nei territori occupati, che provvedono a diffonderli ai media, al web e a denunciare i fatti alla polizia israeliana”. “L’uso dei filmati – aggiunge – serve a evitare ogni manipolazione mostrando ciò che accade realmente. Ma è molto difficile ottenere ragione”. La risposta delle autorità israeliane, secondo la stessa Ong, è “indulgente e conciliante. I responsabili raramente sono condannati e in molti casi nemmeno indagati”.

“Siamo frustrati da questa situazione – continua Nermine – ma non vogliamo andarcene dalla nostra casa”. La donna guarda Nadine, la più piccola dei suoi figli, che le sorride. “Qui sto bene – racconta la bambina – ho i miei amici, vado a scuola, gioco. Da grande vorrei diventare un medico per curare i feriti”. Ai suoi occhi Hebron si mostra attraverso le sbarre e le reti messe a protezione della casa. Inutile, infatti, avere dei vetri che sassi lanciati dai settlers romperanno di nuovo. E poco importa se ogni mattina deve passare i check point e se i suoi parenti, che vivono in H1, non possono venire a trovarla, perché è loro vietato. Ma i sogni si sa non conoscono sbarre e prigioni, nemmeno se si vive a Hebron H2. Poco distante Shuhada street, un tempo ricca di negozi, arteria tra le più importanti di Hebron, oggi chiusa, deserta e presidiata dall’esercito israeliano. È la cartolina di Hebron città dell’apartheid nei territori palestinesi.

Servizio di Daniele Rocchi per Agenzia SIR

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