Per la prima volta da quando è stato eletto segretario di Stato da Francesco, il cardinale Pietro Parolin, figura chiave della diplomazia vaticana di oggi, si esprime sulle principali questioni che stanno a cuore a Israele e agli ebrei di tutto il mondo: i rapporti tra Israele e Vaticano, tra Vaticano e Palestina e le relazioni tra cattolici ed ebrei; la lotta contro il crescente antisemitismo; le responsabilità dei leader religiosi, e dei musulmani in particolare, per contrastare a tutti i livelli la radicalizzazione islamista; gli sforzi del Vaticano per promuovere la pace in Medio Oriente; l’apertura degli archivi della seconda guerra mondiale del Vaticano agli studiosi.
L’incontro è avvenuto nelle storiche sale del Palazzo apostolico; la nostra conversazione è durata quasi un’ora. Il momento è stato provvidenziale, proprio a cinquant’anni dal Concilio Vaticano II e la «Nostra Aetate», che hanno rivoluzionato i rapporti dei cattolici con gli ebrei e le altre religioni, e a vent’anni dall’accordo fondamentale che ha inaugurato una nuova era di relazioni diplomatiche tra lo Stato d’Israele e la Santa Sede. L’intervista, pur se programmata con largo anticipo, è avvenuta sulla scia della delusione per quello che Israele considera un riconoscimento prematuro e dannoso dello «Stato di Palestina» da parte della Santa Sede, e a ridosso della nota ufficiale del Vaticano che ha chiarito che papa Francesco non ha chiamato Abu Mazen «angelo della pace», ma ha espresso invece la speranza che il presidente palestinese possa diventarlo.
Sappiamo che Papa Francesco e la Santa Sede sono sinceramente impegnati a dare il loro contributo per il raggiungimento della pace tra israeliani e palestinesi. Tuttavia, la recente decisione di firmare un accordo con «lo Stato di Palestina» i cui confini devono ancora essere definiti da un trattato bilaterale, ha lasciato Israele sconcertato. Persino gli «angeli della pace» necessitano di piani d’azione ben ponderati. Israele teme che i palestinesi continueranno a cercare legittimazione internazionale senza accettare un dialogo diretto volto a una soluzione a due stati. La Santa Sede ha da secoli una illustre reputazione di esperta diplomazia. Quale strategia si immagina per convincere palestinesi e israeliani ad accettare i compromessi necessari per una pace duratura, e in questo contesto, quali misure potrebbero essere adottate per unire le varie forze palestinesi nella rinuncia a tutte le forme di violenza e ad aderire a uno Stato Palestinese democratico, fondato sul riconoscimento del diritto di Israele a esistere e sull’impegno a difendere i valori espressi nella «Dichiarazione Universale dei Diritti Umani» delle Nazioni Unite del 1948?
«La Santa Sede invita continuamente israeliani e palestinesi a prendere decisioni coraggiose a favore della riconciliazione e della pace. Entrambi i popoli devono risolvere innanzitutto problemi e difficoltà interni, perché, purtroppo, ci sono alcuni che sembrano non volere la pace o si accontentano di mantenere lo status quo. Io vorrei sperare, però, che la maggior parte dei cittadini e dei gruppi siano in favore della pace. Per ricomporre un clima di fiducia e facilitare il dialogo, reso difficile da una storia di lotte e di scontri che hanno lasciato ferite profonde, è necessario contare sul sostegno della comunità internazionale. Certamente un riferimento per tutti devono essere, come lei ha menzionato, i valori espressi dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948 e inoltre le risoluzioni dell’Onu che hanno affrontato la questione. Mi preme sottolineare che la Santa Sede non intende la futura firma dell’accordo con lo Stato di Palestina come un’iniziativa sfavorevole o contraria al processo di pace tra israeliani e palestinesi. Al contrario! Pur trattandosi di un accordo che riguarda fondamentalmente la vita della Chiesa, esso è pensato in funzione del bene di tutta la società. Infatti, un accordo con il quale lo Stato palestinese si impegna a riconoscere diritti fondamentali, tra cui quello della libertà religiosa e di coscienza, va nel senso di contribuire allo sviluppo di un paese in senso democratico e rispettoso delle varie espressioni religiose. La Santa Sede auspica, inoltre, che l’accordo possa in certo modo contribuire anche al raggiungimento di una pace duratura attraverso la soluzione dei due stati. Essa non si può realizzare a detrimento dei diritti legittimi di israeliani e palestinesi, che sono chiamati a trattarsi non come nemici o avversari, ma come vicini e, direi di più, come amici e fratelli, desiderosi e disponibili a trovare una soluzione negoziata per il bene di entrambi. Non spetta alla Santa Sede, di per sé, avere una strategia politica per risolvere il conflitto. Essa ricorda i principi generali ed esorta al dialogo e alla pace. Al riguardo vorrei ricordare il pellegrinaggio di papa Francesco in Terra Santa un anno fa, il cui tema di fondo è stata la pace, quale dono di Dio e, nello stesso tempo, impegno dell’uomo. A esso è seguita l’iniziativa di invitare in Vaticano i presidenti israeliano e palestinese, con la presenza anche del Patriarca Bartolomeo, per pregare insieme per la pace».
Se escludiamo le storiche visite papali di Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco, sono passati oltre 20 anni da quando una missione diplomatica di alto livello della Santa Sede è stata accolta in Israele (capeggiata, all’epoca, dal cardinale Jean-Louis Tauran). Quando ci sarà la prossima, e come vede le relazioni tra la Santa Sede e Israele oggi?
«Vedrei la questione in un modo un po’ diverso, mettendo in rilievo prima di tutto il significato e la portata delle visite degli ultimi Pontefici in Terra Santa, che sono indubbiamente un segno di interessamento della Santa Sede. Per menzionare soltanto l’ultima, penso che papa Francesco abbia lasciato un importante messaggio e sia riuscito a ottenere ciò che sembrava inizialmente molto difficile, ossia che tutti si sentissero compresi e abbracciati. Risultato che non si può dare per scontato. La preparazione stessa della visita non è stata facile, perché si doveva evitare che essa, come pure i gesti e le parole del Santo Padre, potessero essere strumentalizzati o mal interpretati da una parte o dall’altra e avere conseguenze indesiderate. Negli ultimi anni, non sono mancati poi responsabili di diversi dicasteri della Santa Sede che si sono recati in Terra Santa per diversi motivi, come per esempio il cardinale Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani e della Commissione per i Rapporti religiosi con l’Ebraismo. Per quanto riguarda i rapporti tra la Santa Sede e lo Stato di Israele, mi piace far presente che abbiamo da poco celebrato il 20° anniversario delle relazioni diplomatiche, che furono conseguenza dell’Accordo fondamentale tra le parti, firmato il 30 dicembre 1993 e ratificato nei primi mesi del 1994. Da allora è stata percorsa molta strada nel rafforzamento del legame di amicizia e nel dialogo reciproco. Risultato dell’Accordo fondamentale è stata anche un’altra intesa sulla personalità giuridica della Chiesa, del novembre 1997, mentre quella relativa alle questioni fiscali e di proprietà, il cosiddetto “Accordo Economico”, è in fase di conclusione, dopo anni di negoziato, e auspico che si possa chiudere a breve».
Il Vaticano ha chiesto a Israele di rendere legge l’accordo legale che fu firmato tra la Santa Sede e lo Stato di Israele oltre dieci anni fa? Qual è il suo status attuale?
«Più che una richiesta della Santa Sede, si tratta di un’esigenza interna dell’ordinamento israeliano, per far sì che quanto è stato pattuito in un accordo internazionale sia poi applicato anche nel Paese a livello di legislazione e di amministrazione. La questione riguarda sia l’Accordo fondamentale del 1993 sia l’intesa sulla personalità giuridica della Chiesa del 1997. Entrambi, anche se ratificati, non sono stati ancora incorporati alla legislazione interna di Israele. La Santa Sede ha sollevato la questione in diverse occasioni, ottenendo assicurazioni dalle autorità israeliane che avrebbero cercato di provvedervi. Ci sono anche delle proposte concrete, in particolare per quanto riguarda l’intesa sulla personalità giuridica della Chiesa, che sono oggetto di studio e di discussione».
Papa Francesco, così come fecero Benedetto XVI, san Giovanni Paolo e san Giovanni XXIII prima di lui, trasmette bene i suoi sentimenti di vicinanza e di sensibilità per le preoccupazioni del popolo ebraico. Come vede lo stato delle relazioni tra cattolici ed ebrei, oggi?
«Le relazioni tra cattolici ed ebrei hanno avuto uno sviluppo molto positivo soprattutto a partire dal Concilio Vaticano II, in particolare con la dichiarazione Nostra Aetate sulle relazioni della Chiesa con le religioni non-cristiane, del 28 ottobre 1965, la quale ha favorito una nuova stagione di dialogo e prodotto molti frutti. Fra poco si celebrerà il 50° anniversario di tale importante documento. Da parte della Santa Sede esiste un ufficio apposito, la Commissione per i Rapporti religiosi con l’Ebraismo, che intrattiene contatti regolari con diverse istituzioni ebraiche, tra le quali l’International Jewish Committee on Interreligious Consultations. Come da lei accennato, gli ultimi Papi, a più riprese, hanno avuto l’occasione di manifestare la vicinanza agli ebrei, considerati “fratelli maggiori”, recandosi anche in visita a diverse sinagoghe. Papa Francesco, quando era arcivescovo di Buenos Aires, ha intrattenuto buoni rapporti con la comunità ebraica argentina – come li intrattiene oggi con la comunità ebraica di Roma – e ha stabilito legami di amicizia con alcuni dei suoi responsabili, egli riceve spesso rappresentanti di varie organizzazioni ebraiche di tutti i continenti. Posso perciò confermare, con soddisfazione, che lo stato dei rapporti tra cattolici ed ebrei è molto migliorato negli ultimi decenni. Ci si è messi nella direzione giusta di un cammino che deve sempre progredire».
L’ebraismo mondiale è molto preoccupato per l’esplosione dell’antisemitismo in Europa, una malattia che speravamo fosse stata debellata dopo che i traumi della seconda guerra mondiale e della Shoah scossero la società europea nel profondo. Negli ultimi decenni, ogni atto di terrorismo islamico sul suolo europeo ha mirato a obbiettivi ebraici, da soli o congiunti ai simboli della libertà di espressione. Gli stereotipi antisemiti stanno tornando a far parte del linguaggio comune. Attualmente, cittadini europei ebrei stanno emigrando in gran numero da molti paesi. Quali affermazioni, quali azioni potrebbe proporre il Vaticano per contrastare questo terribile fenomeno, che, dirigendosi contro gli ebrei, è anche il primo passo verso la morte della democrazia, della libertà e dei diritti umani, come la storia ci ha insegnato?
«Posso assicurare che la Santa Sede si sente ed è in prima linea nella lotta contro ogni tentazione di risorgente antisemitismo e si è espressa in diversi modi e con esplicite condanne contro di esso, sia a livello interno della Chiesa che nell’ambito della comunità internazionale. Ricordo le parole “forti” di papa Francesco rivolte a una delegazione del già citato International Jewish Committee on Interreligious Consultations, quando ha detto che per le nostre radici comuni un cristiano non può essere antisemita. In quell’occasione, ha aggiunto anche che l’umanità ha bisogno della nostra comune testimonianza in favore del rispetto della dignità dell’uomo e della donna creati a immagine e somiglianza di Dio e in favore della pace. Un messaggio simile la Santa Sede trasmette nei diversi fori internazionali. Vorrei aggiungere che essa si è espressa contro ogni forma di intolleranza sia contro i cristiani, che contro i musulmani o contro gli appartenenti ad altre religioni».
L’ideologia totalitaria islamista sta radicalizzando molti giovani di tutto il mondo e sta facendo pagare un tributo terrificante in termini di vittime tra i cristiani, gli yazidi, le altre minoranze e tra gli stessi musulmani non estremisti in Africa, Asia e nel Vicino Oriente. Come possono gli ebrei, i cristiani e i musulmani da un lato, e Israele e il Vaticano dall’altro, lavorare insieme per combattere questo nemico comune a tutto il mondo democratico?
«Una delle enormi sfide del mondo contemporaneo è il terrorismo. È importante contrastarlo con i mezzi a disposizione. Trattandosi di una minaccia globale, si richiede la collaborazione di tutti per farvi fronte ai diversi livelli, da quello militare della sicurezza, a quello politico, fino a quello economico, nell’intento di bloccare le fonti di finanziamento che alimentano i gruppi terroristici. Tuttavia, la grande battaglia si deve giocare sul fronte delle idee e dell’educazione. A questo riguardo una grande responsabilità ricade sui leader religiosi, chiamati a promuovere la formazione dei loro fedeli al dialogo, alla pace e alla cultura dell’incontro. Ebrei, cristiani e musulmani dispongono nel mondo intero di un grande numero di scuole, associazioni e istituti educativi di vario genere. È essenziale che tutti i responsabili di tali istituzioni si interroghino sui programmi educativi proposti. Se necessario, si deve avere il coraggio di rivedere metodi e contenuti dei programmi per disegnare insieme percorsi di promozione di quei valori fondamentali senza i quali non vi può essere né dialogo né pace. Bisogna lottare contro una mentalità che tende a escludere gli altri e a imporre una società “monocolore”, a scapito della diversità. Va denunciata, in particolare, ogni strumentalizzazione della religione per giustificare la violenza o il terrorismo. In merito all’ideologia totalitaria, islamista a cui lei si riferisce, una responsabilità particolare per contrastarla spetta ai musulmani stessi. Inoltre, è sempre importante promuovere il rispetto delle minoranze e più in generale il rispetto dei diritti umani, alla cui base c’è quello fondamentale alla libertà religiosa. È vitale sviluppare il concetto di cittadinanza come punto di riferimento della vita sociale. Infatti, non si tratta di tollerare le minoranze, bensì di riconoscere che sono parte viva della società, al pari delle maggioranze, e favorirne il coinvolgimento nella ricerca del bene comune.
La Ihra – alleanza internazionale per la memoria dell’olocausto – è una task force internazionale che svolge del lavoro educativo utile per contrastare la negazione dell’olocausto e dell’antisemitismo. Perché il Vaticano non è partner del Ihra, almeno in veste di osservatore?
«Da tempo la Santa Sede opera attivamente in campo educativo, soprattutto nelle scuole per contrastare sia la negazione dell’olocausto sia l’antisemitismo. La Santa Sede intrattiene intensi contatti con l’Ihra, al più alto livello, ed ha partecipato tramite alcuni suoi rappresentanti agli ultimi incontri dell’organizzazione. La Segreteria di Stato, in particolare, ha stabilito rapporti fruttuosi con i responsabili dell’organizzazione e, per favorirli, ha nominato una contact person, il p. Norbert Hofmann, sdb, segretario della Pontificia Commissione per i Rapporti religiosi con l’Ebraismo. Ulteriori passi per progredire in questa collaborazione, esistente già da alcuni anni, saranno debitamente valutati».
Quest’anno si celebra il 50° anniversario del documento conciliare Nostra Aetate, che segna un cambiamento fondamentale e il riavvicinamento tra la Chiesa cattolica e gli ebrei, e con le altre religioni del mondo. Anche se c’è sempre molto lavoro da fare, questo documento e tutti gli importanti documenti successivi emessi dal Vaticano su questa delicata questione sono entrati nelle parrocchie di tutta Europa e degli Usa. I paesi dell’America Latina sono rimasti indietro sotto alcuni aspetti. Cosa si potrebbe fare per aggiornare e trasformare l’insegnamento cattolico in America Latina per quanto riguarda i rapporti con gli ebrei e la religione ebraica, soprattutto in vista della grande influenza di questo Papa, argentino e molto amato?
«L’insegnamento cattolico non cambia da un paese all’altro o da un continente all’altro. Ciò che è differente sono le circostanze e le sensibilità che dipendono da numerosi fattori. Per esempio, il fatto che il Papa sia argentino ha avuto un influsso molto positivo per la Chiesa in America Latina. Comunque, la questione a cui lei fa riferimento è stata più volte qui segnalata da organizzazioni ebraiche e non si è mancato di sollevarla a livello delle conferenze episcopali latinoamericane».
E infine, la solita domanda: quando saranno aperti e consultabili dai ricercatori gli archivi segreti completi sulla seconda guerra mondiale?
«La questione degli archivi e la loro apertura è sempre allo studio, ma la preparazione richiede più tempo del previsto e il ritardo è dovuto a questioni piuttosto tecnico-archivistiche. A rendere più complessa la situazione è l’imponente numero di archivi che ci sono in Vaticano. Circa l’apertura di quelli relativi al pontificato di papa Pio XII, va segnalato che la Santa Sede si adopera per contribuire alla verità storica nella sua completezza. In tale contesto, le forze contrastanti la barbarie dell’olocausto e la dedizione, talvolta fino al sacrificio, di coloro che salvarono la vita di tanti ebrei potranno essere sicuramente tra i temi da approfondire. Al riguardo, la Chiesa cattolica è già impegnata da tempo e a diversi livelli in tale compito e si può evidenziare che gli archivi diocesani in tutto il mondo stanno già portando alla luce grandi sorprese. La Santa Sede intende, come ha fatto nel passato, rendere disponibili le sue carte d’archivio secondo le modalità già indicate negli ultimi anni. Una volta completato il lavoro preparatorio per la consultazione, tutti coloro che abbiano le qualifiche accademiche richieste per la ricerca storica potranno consultare la documentazione disponibile».
di LISA PALMIERI-BILLIG*
*Corrispondente del Jerusalem Post.
Rappresentante presso la Santa Sede dell’American Jewish Committee
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