Il tratto di mare che collega l’Africa con Lampedusa è ormai divenuto un vero e proprio cimitero sommerso, come fosse il campo di una battaglia per la sopravvivenza che i migranti combattono contro il mare e le guerre che si lasciano alle spalle, salendo sui “barconi della morte” che li dovrebbero portare verso la libertà. Tra il 2000 e il 2013 almeno 6.400 tra donne, uomini e bambini sono morti nel tentativo di raggiungere Lampedusa (quasi 8.000 se si allarga lo spettro all’intero Canale di Sicilia). E i viaggi della disperazione non si arrestano, continuano senza sosta finchè dura la disperazione che li genera.
Oggi, dunque, si celebra il primo anniversario di quella terribile tragedia, per non dimenticare. Per non dimenticare i morti e le loro famiglie, per non dimenticare il dramma della guerra, delle persecuzioni e della miseria, da cui essi fuggivano. Tante iniziative e discorsi pubblici a Lampedusa, con usuale sfilata di autorità e politici, oltre alle immancabili contestazioni di gruppi di varia ispirazione. Persino la proposta di una legge istitutiva della “Giornata della memoria e dell’accoglienza” da parte del Comitato “3 ottobre”.
Mercoledì 1° ottobre, Papa Francesco ha voluto incontrare privatamente un gruppo di 37 eritrei (oltre 20 superstiti del barcone affondato e alcuni loro familiari), provenienti da diversi Paesi europei dove hanno trovato accoglienza. I sopravvissuti hanno consegnato al Papa una lettera aperta: “Santo Padre, vorremmo pregare assieme a Lei affinché quello che è successo non accada mai più. Vorremmo che Lei tornasse ancora a levare la sua voce affinché nessuno sia più costretto a fuggire dalla propria terra, la propria casa, i propri affetti; affinché nessuno sia più costretto a rischiare la vita nel lungo e difficile percorso che dal nostro paese, dai nostri paesi devastati dalla violenza, porta verso l’Europa, verso la pace e la tranquillità, verso una vita normale”. “Chiedo a tutti gli uomini e donne di Europa – ha risposto Francesco – che aprano le porte del cuore! Voglio dire che sono vicino a voi, prego per voi, prego per le porte chiuse perché si aprano!”. Sì, perché fare memoria di una tragedia non significa soltanto non dimenticare, ma vuol dire soprattutto imparare dagli eventi, assumersi la responsabilità di contribuire a cambiare le cause della tragedia. E nel frattempo, di fronte all’emergenza di tanti fratelli che fuggono dalla disperazione, “aprire le porte del cuore” mettendo in gioco la solidarietà concreta. Fonte:Agensir
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