È una distesa di gru quella che accoglie chi entra a L’Aquila. Si muovono ritmicamente a destra e a sinistra, spostando i loro bracci metallici carichi di materiale da costruzione. I suoni della movimentazione di questi mezzi alti decine di metri si confondono con quelli che vengono da terra, carriole, camion, ruspe, martelli, cazzuole. Nell’aria l’odore acre della calce e del cemento. Tanti cantieri, piccoli e grandi, hanno preso il posto di case, palazzi, uffici, casali, chiese, spazzati via dal terremoto del 6 aprile del 2009. A raccontarlo agli occhi di chi entra nel centro della città, nella cosiddetta ‘Zona Rossa’, sono il ricordo delle 309 vittime e le crepe sulle pareti, le fenditure, le finestre aperte e i vetri rotti, balconi penzoloni, attraverso cui si possono ancora vedere i fermo immagine di quel giorno. Erano le 3.32. Dopo cinque anni e mezzo oggi L’Aquila è in gabbia, una grande gabbia fatta di tubi, ponteggi, fili, impalcature, nella quale si muovono centinaia di uomini con le loro tute da lavoro, con i caschetti di protezione. I ponteggi sono la nuova immagine di una città che vuole tornare a volare e non sa ancora quando potrà farlo. A guardare bene c’è del bello e creatività nell’intreccio moderno di tubi che avvolgono case e palazzi, vecchi e nuovi, per difenderli dal crollo. Anche se la vera bellezza la si nota solo se si butta l’occhio attraverso le impalcature per catturare scorci ancora vivi di una storia secolare.
Camminare per piazza Duomo, lungo il corso, attraversare i vicoli di questa parte di città è anche incontrare l’Italia, quell’Italia che subito si prodigò per alleviare le sofferenze di un popolo piegato dalla forza distruttrice della natura. Oggi come allora, quando arrivarono migliaia di volontari da ogni parte della Penisola, si sente parlare il dialetto di tante Regioni. Sono le maestranze delle ditte appaltatrici dei lavori di ricostruzione. Il popolo de L’Aquila, del cuore della città, oggi sono loro. La speranza, mai troppo taciuta da tanti aquilani, è che queste case e palazzi, una volta ricostruiti, possano tornare ad accogliere coloro che in tutta fretta quel 6 aprile, li abbandonarono in cerca di salvezza. Il giorno della diaspora degli aquilani che continua ancora oggi, come testimoniano alcuni avventori di uno dei pochi bar aperti intorno a piazza Duomo. “I cantieri stanno lavorando per ricostruire case, uffici, strutture pubbliche, palazzi. Ma chi tornerà ad abitare qui? – si chiedono con un sorriso amaro – la gran parte delle persone, dopo il sisma, è andata a vivere fuori, nelle nuove case. Questa zona de L’Aquila è destinata a restare una scatola vuota”. Poi un pensiero ricorrente che rivela anche una paura: “molte delle abitazioni, una volta risistemate, potrebbero essere vendute a gente facoltosa e a ricchi turisti”. Come a dire: si ricostruiscono case e palazzi ma non il tessuto sociale della città.
Una paura confermata e condivisa da don Sergio Maggioni, parroco della chiesa di Cristo Re, alla Villa comunale, distante poche centinaia di metri dalla Zona Rossa e dai resti della Casa dello Studente, dove morirono 8 studenti. La Chiesa di Cristo Re, costruita nel 1935, da pochi mesi è stata riaperta al culto. Non aveva subito danni ingenti alle strutture, solo lesioni alle arcate centrali della navata e alle pareti laterali. È stata risistemata grazie anche ad un contributo della Cei. Ma è stata la parrocchia a pagare il più alto tributo di sangue del terremoto, ben 67 vittime. Una ferita aperta in mezzo al fiorire di cantieri e di ponteggi. Si lavora alacremente e anche più agevolmente, quasi a lasciarsi dietro orribili ricordi. Le strade non sono quelle strette del centro storico dove i mezzi pesanti e le pale meccaniche fanno fatica a passare. “Qui – dice don Maggioni – l’ostacolo principale è la burocrazia che rallenta gli allacci delle utenze come acqua, luce e gas e impedisce il rientro a casa dei proprietari”. Almeno di quelli che vorrebbero ma che sono pochi. Le palazzine riemergono nuove man mano che le impalcature vengono smontate ma restano per lo più vuote. Sui balconi tanti cartelli con scritto “vendesi”. “Prima del sisma la parrocchia contava circa 1300 fedeli – racconta il sacerdote – ad oggi sono rientrate poche decine di famiglie. Dopo il terremoto molte persone, soprattutto anziane, sono andate a vivere sulla costa e fuori L’Aquila, ora dopo quasi 6 anni hanno difficoltà a rientrare. Le loro case sono passate agli eredi che, in diversi casi, le hanno messe in vendita”. Una situazione che influisce non poco sulla vita della parrocchia che stenta a decollare. “Abbiamo riaperto la chiesa ma non ho più nessuno. Non ho bambini per il catechismo, non ho catechisti, ministranti, laici. Vedo un po’ di gente alla messa del sabato sera e della domenica. Si tratta di qualche parrocchiano che torna perché legato ancora alla sua chiesa. Ma la maggior parte dei miei fedeli oggi vive in altri luoghi e frequenta altre comunità”. La speranza di don Maggioni è che nuove famiglie, magari con bambini, prendano casa alla Villa Comunale e frequentino la parrocchia. “Attendo Pasqua 2015 per poter riprendere la benedizione delle case e conoscere gli abitanti di questa zona”. Il futuro? “Nonostante tutto abbiamo speranza. Qui la gente è caparbia e non si farà piegare dal sisma” conclude il parroco prima di lasciarsi scappare un “jemo ‘nnanzi” (andiamo avanti). L’Aquila vuole tornare a volare, priva di ponteggi.
dall’inviato Sir a L’Aquila, Daniele Rocchi
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