Una sorta di laboratorio della società futura: un crogiolo di culture, lingue, tradizioni e razze, che si intrecciano e si sfiorano quotidianamente in un tessuto sociale attraversato da crisi economiche e occupazionali. Così monsignor Franco Agostinelli, vescovo di Prato, in questa intervista al nostro giornale, descrive il volto della città dove martedì prossimo, 10 novembre, Papa Francesco si recherà in visita, sostandovi per circa un’ora, prima di raggiungere Firenze per incontrare i partecipanti al convegno della Chiesa italiana.
Cosa rappresenta per Prato la visita del Pontefice?
È senz’altro molto significativa, perché quello che ci aspettiamo da Papa Francesco è una parola per la realtà che la città sta vivendo in questo momento. Su questo vogliamo riflettere e continuare il nostro percorso diocesano anche una volta terminati la visita e il convegno ecclesiale nazionale. È un’aspettativa che ci carica di una voglia di fare; ed è un fare che ha il conforto di quello che il Pontefice ci dirà.
Il Papa incontrerà il mondo del lavoro. Quali iniziative promuove la Chiesa per sostenere i disoccupati e i giovani?
La Chiesa locale sta portando avanti alcune iniziative, come il fondo Santo Stefano. Si tratta di un progetto nato all’interno della diocesi per favorire e aiutare tutti quei giovani che hanno intenzione di intraprendere un’attività e ne hanno le capacità, ma non sempre hanno l’appoggio delle istituzioni. In questi anni abbiamo aiutato, per quello che potevamo, i giovani che volevano iniziare questo percorso e le aziende che, pur avendolo già intrapreso, si trovavano in difficoltà. Quella che stiamo facendo è perciò un’opera di promozione culturale, tanto che, nel giugno scorso, abbiamo promosso un incontro con il mondo del lavoro. In pratica, abbiamo dettato un’agenda di speranza per Prato. È stata una riflessione sulla situazione del lavoro quale abbiamo avuto modo di sperimentare attraverso incontri con le persone e con le categorie addette ai vari settori produttivi. Vogliamo continuare su questa linea e credo ci sia la possibilità di farlo, proprio perché la preparazione alla visita del Papa ha visto concorde tutta la città. Una lieta sorpresa l’abbiamo avuta proprio dal mondo del lavoro, che si è attivato e con disponibilità ed entusiasmo si è preparato all’incontro con Francesco. Questo ci fa ben sperare che, una volta conclusa la visita del Papa, ci sia una continuità: non solo nel dibattito, ma nella ricerca di strade praticabili per dare occasioni di lavoro a chi il lavoro non l’ha più o a chi lo cerca per la prima volta.
Quali sfide suggerisce alla Chiesa di Prato l’enciclica «Laudato si’»?
Questo rapporto armonico con la natura non è un’ecologia del sentimento o dell’estetismo. Vuole essere soprattutto rispetto per la natura, per l’ambiente dove viviamo. Se manca questo, e ne vediamo i segni premonitori a livello mondiale, non riusciamo più a disciplinare l’andamento dei tempi e delle stagioni. Tutto questo non è dovuto solo alla natura che cambia, perché i cambiamenti avvengono a causa di sollecitazioni in negativo del nostro modo di vivere, di comportarci. Il rispetto verso la natura comporta il rispetto anche nei confronti di coloro che della natura usufruiscono e che della natura vivono, cioè le persone.
Prato può essere definita un laboratorio di dialogo tra culture?
Ricordo al mio arrivo in diocesi, quando fui accolto dal consiglio comunale, affermai che Prato va considerata il laboratorio di quello che sarà la società futura. Perché qui convivono molteplici etnie e sono rappresentante ben 112 nazionalità. Questo vuol dire incontro tra culture, storie e sensibilità diverse, pur con tutti i problemi che questo comporta: e sono tanti al riguardo. Un primo problema è l’integrazione, che non è sempre facile. Un secondo, per noi che siamo Chiesa dell’evangelizzazione, è come incontrare persone che vengono da lontano, non solo geograficamente, ma soprattutto culturalmente. È questo, in particolare, l’impegno che deve caratterizzare il nostro percorso in questi anni, sia dal punto di vista sociale, sia ecclesiale.
Come si pone la comunità ecclesiale di fronte al fenomeno dell’immigrazione che ha notevolmente cambiato il volto della città negli ultimi decenni?
Negli anni più recenti la comunità ha cercato di affrontare con tutta l’assistenza possibile queste persone. Lo abbiamo fatto anche attraverso le “comunità etniche”, che si occupano degli immigrati sia dal punto di vista spirituale, sia da quello umano. Ogni comunità ha il suo assistente, il suo cappellano che anima dei momenti di ritrovo e di incontro. Questa è stata la prima risposta. Abbiamo cercato poi di prestare maggiore attenzione soprattutto alla comunità che è maggiormente rappresentata, quella cinese, che numericamente è la più consistente. Proprio per questo abbiamo lavorato soprattutto nel luogo dove i cinesi tradizionalmente si incontrano: mi riferisco alla parrocchia dell’Ascensione al Pino, dove abbiamo creato una comunità italo-cinese, con due sacerdoti italiani e due sacerdoti cinesi. Qualche mese fa, abbiamo fatto venire da Pechino tre suore, che in questo periodo si stanno preparando a gettare ponti con la comunità cinese, interessandosi ai bambini e alle famiglie. Questo sarà uno degli strumenti di dialogo con una comunità che per temperamento e cultura non è sempre portata ad aprirsi. Pensiamo che dei 30.000 cinesi censiti ufficialmente i cattolici sono appena 160. C’è una mole di lavoro enorme da fare, quindi, ma certamente a piccoli passi. Non abbiamo l’illusione di risolvere il problema nello spazio di pochi mesi o di pochi anni. Tanto più che la comunità cinese non è stabile. Molti sono qui perché considerano l’Italia la loro seconda patria, ma tanti non restano. Sono qui per cercare risposte alle loro attese di carattere economico e poi, se possibile, ritornare in Cina, tanto più che la nazione è disponibile a riaccogliere i propri cittadini sparsi nel mondo. In minima parte, si avverte già un flusso di rientro dei cinesi in patria.
Come risponde la diocesi all’invito del Papa a uscire verso le periferie esistenziali?
Queste sono veramente le nostre periferie esistenziali. Pensiamo che Prato sia la città del lavoro per antonomasia, ma adesso non è più così. Mi raccontano i pratesi che una volta gli emigranti provenienti da altre parti d’Italia arrivavano la mattina e alla sera già trovavano il lavoro. Oggi, invece, molti hanno perso l’occupazione. E quando la si perde a 40 o 50 anni, è difficile potersi reinserire nel mondo del lavoro. Basti ricordare che tutti i giorni nelle nostre parrocchie accogliamo non solo i tradizionali mendicanti, ma anche famiglie che chiedono aiuto per l’abitazione e per trovare lavoro. Registriamo nelle nostre mense una presenza di italiani come prima non si era vista. Vuol dire che il bisogno esiste. Queste sono le nostre frontiere. Non possiamo pensare di affrontare questa situazione con un’opera di carattere spirituale disincarnata dalla realtà. Il messaggio cristiano si deve incarnare, perché è nella storia e per la storia. Il Signore ha scelto la via dell’incarnazione, non ha scelto la via dell’ideologia. Il cristianesimo non è un’ideologia, è un’esperienza, una storia. Il nostro impegno in questi anni sarà quello di ritornare in mezzo alla gente, di mettersi in atteggiamento di ascolto, per capire quali sono i reali problemi e per risolverli: o meglio, per poter rispondere e sollecitare le istituzioni che di questi problemi necessariamente per prime devono farsi carico. Dobbiamo essere un po’ la voce di chi l’ha perduta e, insieme a essa, la speranza.
Redazione Papaboys (Fonte L’Osservatore Romano/Nicola Gori)