C’è un Pakistan dove cresce l’intolleranza; dove la quotidianità delle minoranze religiose è miseria, è ingiustizia, è discriminazione; dove persino i libri scolastici “bollano” i non musulmani come cittadini di serie B. E c’è un altro Pakistan che vuole camminare verso il futuro e sfidare il fondamentalismo. Due realtà. Due visioni di società. Due idee di mondo. C’è il Pakistan dei cristiani perseguitati. Ma c’è anche il Pakistan dove il confronto è possibile. Anzi è reale. Dove c’è un Islam con cui parlare, con cui costruire, fare fronte comune. Anche per gridare “no” al terrorismo.
Un sorriso leggero e amaro taglia il volto di monsignor Joseph Coutts mentre racconta il suo Pakistan. Mentre riflette a voce bassa sulle «contraddizioni» di un Paese che lotta per la democrazia. Mentre si sofferma sulla necessità di «lavorare con quell’islam che, come noi, è sotto l’attacco di una minoranza di fanatici». L’arcivescovo di Karachi parla in inglese di fede e di testimonianza, di dialogo e di impegno. «Userei il vostro italiano, ma per trovare le parole con facilità mi ci vorrebbe un bicchierino di grappa», ci dice confessando una certa timidezza.
È la sola parentesi “leggera”. Per qualche istante monsignor Coutts (reduce da un incontro con alcuni diplomatici europei organizzato da Aiuto alla Chiesa che soffre e pronto a ripartire per il Pakistan) resta silenzioso. Poi riparte spiegando che cosa vuole dire testimoniare. «È declinare la parola solidarietà. È stare al fianco dell’handicap. È curare. È assistere.
Abbiamo 300 scuole cattoliche dove aiutiamo i ragazzi a diventare uomini con valori, con visione, con capacità di capire il mondo. I musulmani vogliono che i loro figli studino nelle nostre scuole. Ho amici musulmani che mi dicono: “Insegnate ai nostri ragazzi questi valori, insegnate loro a essere onesti, aperti, tolleranti; insegnategli a essere persone buone”. Noi cristiani siamo una minoranza. Ma non silenziosa. Non nascosta. Siamo una minoranza, ma portiamo un contributo vero, forte, contagioso. Siamo il 2 per cento, ma abbiamo un ruolo in questa società che va ben oltre quella percentuale».
C’è una scuola capace di unire. Di essere terreno di incontro, di scambio. Ma nel Pakistan delle contraddizioni c’è anche una scuola teatro di discriminazioni, di intolleranza, di terribili ingiustizie. Ora l’arcivescovo si affida a un esempio per far capire. Lo racconta con parole semplici. Con pause leggere che danno forza a quel messaggio. «Capita spesso, troppo spesso, che una maestra assegni ai suoi alunni un tema dal titolo: “Scrivi una lettera a un tuo amico e invitalo a convertirsi all’islam”. Ma questo non succede solo ai giovani studenti. Anche io ho ricevuto pressioni, anche a me hanno scritte lettere dove mi invitavano a convertirmi. Io ho fatto l’unica cosa che dovevo fare: non ho risposto».
Ancora una pausa. «Essere cristiani in Pakistan è una sfida dura e quotidiana», sussurra monsignor Coutts. «Non sappiamo mai quando possiamo diventare obiettivi di intolleranza e pregiudizio. Si vive nell’apprensione, nella paura che una parola possa trasformarsi in una condanna. È successo ad Asia Bibi, ma qui in Pakistan di casi così ce ne sono decine e decine». Ancora una volta nella riflessione del sacerdote si fronteggiando le due realtà. L’arcivescovo passa da una all’altra con facilità. Quasi fosse inevitabile fare i conti, qui in Pakistan, con il bene e con il male.
«Ho amici imam. E con loro c’è un confronto vero, c’è rispetto. Deve essere così perché abbiamo un nemico comune. Perché per vincere il terrorismo dobbiamo essere uniti. Oggi bersaglio non siamo solo noi cristiani; è il Pakistan il bersaglio, è la voglia di democrazia, è la volontà di respingere una visione da Medioevo per camminare verso il futuro. I terroristi uccidono anche i figli dei musulmani. Colpiscono anche chi tra loro non accetta quel clima d’odio verso l’Occidente. Hanno ucciso giudici musulmani “colpevoli” di aver garantito un processo a chi ha fatto del male ai cristiani. Ecco questo è il Medioevo». C’è amarezza, ma c’è anche speranza.
«Oggi c’è una maggioranza musulmana moderata sempre meno silenziosa, sempre meno timida. Lo scorso giugno l’esercito pachistano ha messo in campo 30mila soldati per frenare i terroristi. Il governo ci protegge, la domenica ci sono militari a difendere le nostre Chiese». Ancora una volta l’arcivescovo pesca nei ricordi. Torna indietro di quindici anni: ottobre 2001, il primo attacco a una Chiesa pachistana. Proprio un mese dopo la tragedia delle Torri Gemelle». Coutts pensa; la testa tra le mani. «In quelle ore mi interrogavo sul Natale, sulla Messa di mezzanotte a Natale; mi chiedevo se fosse giusto mettere a rischio la vita della mia gente. I fedeli capirono i miei dubbi e li spazzarono via con dieci parole: “Vescovo, se i terroristi ci vogliono uccidere meglio morire in Chiesa».
Parole e immagini si accavallano, l’arcivescovo pesca nella memoria e si ferma su una “fotografia”. «I giovani universitari della Commissione per i diritti dell’uomo. Ricordo la loro catena umana. Ricordo il significato di quel gesto fatto da quei giovani tutti musulmani: simboleggiare la loro volontà di difendere i cristiani dagli attacchi». Quella sintonia così forte e così contagiosa è figlia dell’impegno, della testimonianza, dei gesti concreti. «Il nostro lavoro è per un’umanità che soffre. Senza distinzioni. Noi siamo al fianco dei cristiani e dei musulmani senza fare domande. Lavoriamo per far crescere il Pakistan.
Per dare forza allo sviluppo. Siamo con questa gente nei momenti più duri. Quando c’è un alluvione, quando c’è una carestia, quando c’è paura. Questo è il modo di trasmettere i valori morali: con il servizio, con la cura». È la sola risposta possibile, ripete monsignor Coutts. «È il solo modo per sfidare il fanatismo. Gli estremisti ci temono. “Importate valori distorti, corrompete, minacciate la nostra cultura”, ripetono nei loro atti d’accusa. Ma sono parole. Parole e basta. Noi continueremo a fare del bene. È il nostro dovere. È la nostra missione. Dialogo, dialogo, dialogo: non lasceremo che la luce venga sopraffatta dal buio».
Di Arturo Celletti per Avvenire