Si aspettano tutti il ‘miracolo’ di Papa Francesco. Del resto, nella Repubblica Centrafricana di oggi non c’è molto altro a cui aggrapparsi. «Quando lui arriverà – dice convinta una mamandel quartiere di Bimbo, periferia della capitale Bangui – tutta la schiera degli angeli scenderà con lui e non potranno non riuscire a vincere il male che abita ancora il cuore di tanta gente!».
Guai a sollevare il dubbio che forse papa Francesco avrà qualche difficoltà ad andare in Centrafrica. Questo dubbio, semmai, lo sollevano i servizi segreti francesi, nonostante la massiccia presenza di militari d’Oltralpe schierati nell’ambito della Missione Sangaris e di un ancor più consistente contingente della Missione Onu (Minusca). Ma entrambe queste presenze non danno alcuna sicurezza e rassicurazione alla popolazione. La gente vuole il Papa. «La fede delle persone semplici è grande.
E non finisce di stupirmi», conferma suor Elianna Baldi, missionaria comboniana, che vive proprio a Bimbo e che in queste settimane sta vivendo con i suoi confratelli missionari comboniani il dramma dell’ennesimo attacco alla parrocchia di Notre Dame de Fatima, nuovamente presa di mira giovedì 29 ottobre. Solo la presenza delle forze dell’Onu ha impedito che accadesse il peggio, come già successo nel maggio 2014, quando furono uccise 18 persone, tra cui un sacerdote. Ancora oggi, però, la situazione è tutt’altro che calma. «Gli anti-balaka da una parte e i mercenari dall’altra – testimonia suor Elianna – hanno costruito barricate. È quasi impossibile avvicinarsi ». «Qui diventerà come Israele e Palestina», ha sussurrato uno di loro, mentre suor Elianna cercava di passare con un gruppo di giovani.
Ma forse è già così. O anche peggio. «Agghiacciante! –commenta la missionaria –. Questi ragazzi non sembrano conoscere il confine tra gioco e realtà. E la colpa, dal loro punto di vista, è sempre degli altri. ‘Gli altri non vogliono la pace!’, dicono. Ma loro stessi sono lì, pronti a uccidere o a farsi uccidere». «Esiste davvero un’autorità in questo Paese? – si chiedono i comboniani che continuano a vivere in una situazione di precarietà e insicurezza –. Quale ruolo giocano effettivamente queste diverse forze internazionali presenti in Centrafrica? E dov’è il ruolo profetico della Chiesa di fronte alla passività del governo e delle forze internazionali? ». Il clima a Bangui è teso. Nessuno sembra veramente controllare la città, salvo le zone centrali. Ma è soprattutto il resto del Paese a essere completamente allo sbando. La crisi si trascina dal marzo 2013, quando il gruppo Seleka, una variegata coalizione di ‘ribelli’ che rispondeva a capi e interessi diversi – infiltrati da fondamentalisti musulmani provenienti da Sudan e soprattutto Ciad – prendeva il potere a Bangui, scalzando il presidente François Bozizé.
Durante la sua avanzata verso la capitale, il gruppo aveva distrutto e saccheggiato chiese e strutture della Chiesa, ma anche ospedali e centri sanitari. In seguito a forti pressioni, soprattutto francesi, il presidente autoproclamato Michel Djotodia è costretto a dimettersi nel gennaio 2014. Viene sostituito da Catherine Samba-Panza, eletta dal Parlamento il 20 gennaio dello stesso anno. Nel frattempo, gruppi di autodifesa chiamati “anti-balaka” (prevalentemente cristiani) si organizzano per fronteggiare la resistenza degli ex Seleka (musulmani).
Il conflitto prende così anche una connotazione etnico-religiosa, con luoghi e simboli cristiani e musulmani presi regolarmente di mira dagli uni come dagli altri. Ma la crisi centrafricana nasconde soprattutto interessi economici (legati, ad esempio, allo sfruttamento del diamanti) e di potere. È quello che continua a ribadire anche la Piattaforma interreligiosa, composta dall’arcivescovo di Bangui, Dieudonné Nzapalainga, dal pastore Nicolas Grékoyamé-Gbangou, presidente delle Chiese evangeliche, e dall’imam di Bangui Oumar Kobine Layama, che sta portando avanti un’incessante opera di riconciliazione dei diversi gruppi e di promozione della pace. Per questo suo impegno la Piattaforma ha ricevuto anche il prestigioso “Premio Sergio Vieira de Mello 2015”. Nel frattempo, però, la situazione umanitaria è precipitata. Quasi un milione di persone, su una popolazione di circa 5 milioni e mezzo, è stata costretta a lasciare la proprie abitazioni e vive da sfollata o da profuga nei Paesi vicini.
E tutti gli altri vivono in una condizione di precarietà e deprivazione totale, tanto da aver bisogno, secondo le agenzie internazionali, di aiuti umanitari urgenti. Aiuti che non ci sono o che faticano ad arrivare là dove ce n’è veramente bisogno. Ecco perché qui, ancor più che in Kenya e in Uganda, il Papa è atteso come portatore di pace e di speranza. Guai dunque a insinuare il dubbio che forse avrà qualche difficoltà a recarsi in Centrafrica. La maman di Bimbo è perentoria: «Ma soeur! – ha risposto a suor Elianna – non dirlo neanche per scherzo! Il Papa deve venire! Anzi, dovrebbe venire un po’ prima. Qui c’è bisogno di un miracolo!».
Redazione Papaboys (Fonte www.avvenire.it/Anna Pozzi)