Laura credeva di aver visto una luce, ma ha trovato soltanto tenebre. “Uscire di casa da sola è vietato, lavorare è vietato, andare su Internet senza un uomo presente è vietato. Non esistono diritti per le donne. Ho vissuto otto mesi di terrore, mi sentivo prigioniera”. Laura si era convinta che il Califfato di Al Baghdadi fosse il posto giusto per crescere suo figlio Ileyss di quattro anni. Non il Belgio, dove era nata.
Né l’Italia, da dove veniva la sua famiglia. La Siria. “Dopo due mesi, ho capito l’enorme stupidaggine che avevo fatto e ho implorato i miei genitori perché mi venissero a riprendere”.
Laura Passoni ha 30 anni, vive a Jumet vicino a Charleroi ed è madre di due figli: Ileyss e un altro bambino concepito mentre era in Siria. Il padre di Laura si chiama Pascal, sua madre Antonietta. La famiglia Passoni è una delle tante famiglie italiane emigrate in Belgio nel Secondo Dopoguerra. “I miei vivevano a Roma e a Milano”.
Dal luglio 2014 all’8 marzo 2015 Laura è stata una mamma europea nel Califfato. “Abitavo ad Al Bab con mio marito, nel governatorato di Aleppo”. Ne ha osservato le regole e i dogmi. Sono bastate poche settimane per sperimentare ciò che la propaganda dell’Is le aveva taciuto.[[ge:rep-locali: repubblica:138009720]]Per la prima volta ha deciso di raccontare la sua storia, lasciando però delle impenetrabili macchie nere sul suo recente passato. “Non ho voglia di rispondere a questo”, dice, appena la conversazione vira sulla sua rocambolesca fuga dalla Siria. O sul vero ruolo che il Califfato aveva affidato a suo marito tunisino Oussama Rayan, conosciuto su una chat (i magistrati belgi che accusano la coppia di partecipazione al gruppo terroristico internazionale non credono che sia stato solo “un addetto al pagamento degli operai dei cantieri per conto dello Stato Islamico”). E Laura niente dice dei contatti che i genitori, scesi fino in Turchia, hanno preso con gruppi jihadisti per riportarla a casa. La conversazione con lei è iniziata a Molenbeek, durante una riunione dell’associazione dei familiari di foreign fighter Les Parents Concernés, ed è proseguita via email.
Cosa faceva a Charleroi, prima di partire?
“Lavoravo in un supermercato, avevo un contratto a tempo indeterminato. Anche mio marito lavorava nei grandi magazzini”.
Da quanto è sposata?
“Da due anni. Mi sono convertita all’Islam e mi sono sposata religiosamente con un ragazzo tunisino (Oussama Rayan, ndr)”.
Aveva un posto fisso e un figlio nato da una precedente relazione. Cosa sperava di trovare in Siria?
“Lo Stato Islamico non lo conoscevo per niente, non ero interessata. Poi però lui mi ha messo in testa delle cose che mi hanno fatto cambiare idea: la propaganda dell’Is è fortissima, ci sono cascata e mi sono radicalizzata. Lo immaginavo come l’unico posto adatto ai veri musulmani”.
E’ stata costretta da qualcuno?
“No, la decisione l’ho presa da sola”.
Come è arrivata laggiù?
“Con la nave. Con mio marito abbiamo fatto una crociera in Turchia. Poi una volta a Smirne, siamo andati fino al confine con la Siria e abbiamo oltrepassato”.
Lo Stato Islamico vi ha fornito nuovi documenti?
“No, niente. Ci siamo stabiliti in un appartamento ad Al Bab, che abbiamo trovato da soli. I salari sono molto bassi e il cibo costa caro”.
C’erano scorte alimentari nei negozi?
“Sì, non mancano. Solo che sono troppo care”.
Ci sono tasse da pagare?
“No. Dottori, ospedali e medicine ci sono, ma non è come da noi: usano cure che in Europa non avevo mai visto”.
E lei cosa faceva?
“Nulla! Mi era vietata qualsiasi cosa. Durante il giorno badavo a mio figlio, pulivo la casa e preparavo il pranzo e la cena. Ero obbligata a portare il burka, non avevo la libertà di uscire di casa se non con mio marito. Nemmeno per fare la spesa. Senza di lui, non potevo decidere niente. Le regole da seguire sono pesantissime. E siamo sorvegliati giorno e notte”
Poteva guardare la tv o andare su Internet?
“Solo in presenza di mio marito. Le donne non hanno nessun diritto, se una non si abitua in fretta non sopravvive”.
Ha subito violenze?
“No. Ma vivevo nella paura perenne che potessero venire a prendere mio figlio”.
Le condizioni delle donne sotto l’Is non erano certo un segreto, non è possibile che lei non ne fosse a conoscenza. Cosa l’ha spinta a tornare in Belgio?
“Dopo due mesi ho realizzato che mi avevano detto solo bugie, che i video di propaganda erano dei montaggi slegati dalla realtà. Non stavo bene, nessuno sta bene in Siria. Non volevo che mio figlio diventasse come i terroristi”.
E come ha fatto a comunicare con i suoi genitori?
“Tramite messaggi che mandavo di nascosto”.
Quando è tornata in Belgio, nel marzo dell’anno scorso, come è stata trattata dalle autorità?
“Mi hanno subito messa in stato di fermo e tolto l’affidamento dei miei figli. Li hanno tenuti per tre mesi i miei genitori, poi, dopo aver mostrato il mio rimpianto al giudice, me li hanno ridati. C’è stato un processo, alla fine del quale sono stata condannata a 5 anni con la condizionale e 15mila euro di multa da pagare. Non hanno tenuto conto del mio ravvedimento, né del fatto che me ne sono andata via volontariamente dall’Is. Adesso non posso utilizzare i social network, le mie e-mail e le telefonate sono intercettate”.
Cosa pensa degli attentati di Bruxelles?
“Sono contro qualsiasi forma di violenza nei confronti della gente innocente”.
Cosa dice alle donne che ancora oggi lasciano tutto per andare nel Califfato?
“Non partite, riflettete prima di farlo. Una volta laggiù, è quasi impossibile tornare indietro. Anche se vi fanno capire che tutto è facile, credetemi, non lo è. Non fatevi fare il lavaggio del cervello, e prima di prendere decisioni parlatene con qualcuno. Evitate di fare l’errore che ho fatto io, perché la mia vita adesso è rovinata”.
Redazione Papaboys (Fonte www.sanfrancescopatronoditalia.it/Fabio Tonacci)