Caro signore, quest’aggettivo cordiale vi darà forse un brivido, quando ve-drete la firma in calce alla lettera; ma che volete, alla simpatia non si comanda; d’altra parte, voi giornalisti ed io, il Diavo-lo, non facciamo forse lo stesso mestiere?
Non componete, ogni giorno, con quelle «novità» che non sono poi così nuove, e con quei «fatti diversi» che non sono poi così diversi, una trama fragile ed illusoria che proponete ai vostri contemporanei come un’immagine della vita, e che non è mai altro che la proiezione tipografica ed illustrata delle vostre alluci-nazioni, pregiudizi, partitipresi e modeste illuminazioni perso-nali?
Nella migliore delle ipotesi, un giornale è un’opera d’arte come le altre: la combinazione d’una scelta e d’una messa in scena. Voi stampate per impressionare. Voi imprigionate il let-tore nella tela dei vostri artifici, per attirarne l’occhio verso la conclusione che vi piace: anch’io non faccio niente di diverso, però lo faccio meglio di voi; mi chiedo solo perché nel mio caso si denuncia la «tentazione», mentre tra voi si riverisce 1’« informa-zione». Certamente è un effetto dell’ingiusta reputazione che hanno creato in passato, attorno a me, i vostri preti, spaventati nel constatare che si cominciava a credere in me più che nell’Al-tro (capite benissimo a chi mi riferisco).
Anche voi, tentate. Pensate così poco ad informare, che fate tutti un identico giornale. Sui vostri tre canali televisivi, i gior-nali non sono altro che versioni luminose de «Le Monde». Essi producono le immagini, «Le Monde» fornisce il testo, il tono, l’analisi e la riflessione. I fatti vengono presentati secondo l’or-dine d’importanza che ha scelto lui, spesso con le stesse parole. Non potendo disporre della edizione del giorno, che esce verso le tre, il Telegiornale di mezzogiorno riproduce i quotidiani del mattino che si ispirano a «Le Monde» del giorno prima, il quale poi, in definitiva, copia se stesso fin dal momento in cui è stato fondato.
Non venite a dirmi che questa bella uniformità è la miglior prova dell’esistenza di una verità dei fatti la cui evidenza si im-pone. Se anche così fosse, voi non la sentireste tutti allo stesso modo per renderne conto negli identici termini.
In effetti, voi tutti tentate di rifare il primo numero de «Le Monde», ed è nella misura in cui non ci riuscite – neanche lui, del resto – che provate la sensazione della novità.
Detto questo, devo aggiungere che non è mia abitudine scri-vere ai giornalisti, che svolgono quanto mai convenientemente il loro compito coltivando nel migliore dei modi possibili le virtù che io mi sono sempre sforzato di far prevalere: dubbio, invidia, disprezzo e, per quanto riguarda i migliori di voi, odio.
Ma succede che avendo le cose umane assunto finalmente una forma che mi è particolarmente gradita, e poiché il mondo si comporta in modo tale che i miei piccoli interventi diventano sempre meno necessari, dispongo di un mucchio di tempo libero che trascorro come di solito a Ginevra, dove ho un «pied-à-terre ».
Mi piace questa città dalle tempie grigie, il suo getto d’ac-qua che non battezza nessuno, il battito sotterraneo delle sue mandibole bancarie, il lieve mormorio dei suoi orologi al quarzo, che fanno sentire alle orecchie altrimenti distratte l’im-percettibile gemito del tempo ridotto alla confessione cifrata della sua lentezza e della sua vanità. Detesto il tempo, e sono ben lieto di vederlo prigioniero. Amo soprattutto il Muro della Riforma, questa superba costruzione di pietra nuda innalzata non lungi dalla cattedrale in mio onore, dal momento che la sua iscrizione mi cita due volte in tre parole: Post tenebras lux, dopo le tenebre la luce. Non vengo forse chiamato Principe delle tenebre, e non sono forse Lucifero, il «porta-luce», per lo stato civile angelico?
Si tratta d’altra parte del solo monumento che gli uomini ab-biano innalzato a mia gloria, per onorare me che ho insegnato loro tutto quanto li interessa, la guerra, la lussuria, la menzogna, e il resto. Mentre tutte le città di Francia, per citare soltanto il vostro simpatico paese, hanno dedicato un viale a Emile Zola od a Gambetta, dei quali al massimo si può dire che non furono dei cattivi diavoli, cerchereste invano sulla terra un «corso Satana», una piazza Mefistofele, la più piccola, insignificante via, viuzza, vicolo, budello testimoniante la riconoscenza che mi è dovuta per tanti benefici ed eccellenti consigli che raramente ho dovuto ri-petervi. Senza il bel parapetto di Ginevra, che mi diverto ad at-traversare da parte a parte diverse volte al giorno – è il mio muro del suono – anch’io non avrei «una pietra su cui posare il capo». Rin,grazio i Ginevrini, benché non l’abbiano fatto apposta.
E da Ginevra che vi scrivo, e poiché mi chiedete per qual mo-tivo vi accordi questo favore, vi dirò che mi è parso giunto il mo-mento di rettificare certi errori che da troppo tempo circolano sul mio conto e che trattengono ancora il mondo sul cammi-no della salvezza.
La beata sfacciataggine di alcuni dei vostri scritti mi fa pen-sare che siete tipo da darmi una mano in questa impresa. Per-mettetemi di dichiararmi, in questo spirito, essenzialmente mio e accessoriamente vostro
Il Diavolo
P.S. In questo 1° gennaio, capirete benissimo che non in-tendo abbandonarmi alla ridicola abitudine degli auguri per l’anno nuovo. Formulare un voto vuol dire aspettarsi qualcosa dalla vita, dal caso o da qualcuno; ora la vita non fa regali oggi senza riprenderseli domani, il caso non esiste ed io non mi aspetto niente se non da me stesso, cosa nella quale non mi stan-cherei di consigliarvi di imitarmi.
Ginevra, 16 gennaio
Caro signore,
il vostro confratello in fantasticherie e frottole mistiche, l’in-glese C. S. Lewis,
Nota: Si riferisce a Clive Staples Lewis (1898-1963), scrittore e critico inglese; nel 1942 scrisse Le lettere di Berlicche, una serie di lettere che un vecchio diavolo in pen-sione, Belicche, invia ad un giovane diavolo, Malacoda, alla prime esperienze di «la-voro» (N.d.C.).
sosteneva che gli uomini commettono nei miei confronti due errori gemelli e contradditori, l’uno per eccesso, l’altro per difetto: «Talvolta credono troppo al Diavolo, diceva, talaltra non vi credono abbastanza».
Lewis non aveva torto. E’ certo che il vostro Medioevo è ca-duto nel primo di questi due errori: non che sopravvalutasse la mia importanza, cosa impossibile, ma si sbagliava sull’estensione dei miei mezzi di azione; li credeva illimitati, mentre mi vengono invece grettamente misurati dall’Altro, che non gioca a carte sco-perte. Pensate che nessun bilancio è stato previsto per me nell’e-conomia della creazione, dove pure il superfluo trabocca, e che devo vivere alla giornata, come dite voi, di ciò che tralasciate dei vostri diritti o di ciò che lasciate perdere delle vostre enormi gra-tifiche spirituali.
Il Medioevo mi credeva dappertutto, ed io non ero in nessun posto. Cacciato dai vostri esorcisti, respinto da masse compatte d’acqua benedetta che mi arrivavano in piena faccia come onda-te marine, radiato da innumerevoli segni di croce, strangolato dai vostri rosari e messo alla gogna su tutti i capitelli delle vostre cat-tedrali, ero ridotto dai vostri predicatori all’immagine biblica del Serpente, questa falsa sembianza, questo segno della sottrazione
insinuato sotto le foglie, questa retta ondulata che non trova sistemazione in nessuna forma, e di cui voi avete fatto quanto mai stranamente, allorché si morde la coda, il simbolo congiunto della saggezza e dello zero.
Ho un pessimo ricordo di quell’epoca e disperavo ormai di uscirne quando mi venne l’idea geniale di lanciare il motto «oscu-rantismo», subito ripreso con entusiasmo dai vostri umanisti, che hanno determinato il suo splendido successo.
L’idea era tanto più buffa dal momento che tale definizione si poneva in contraddizione assoluta con l’esuberanza variopinta di quel tempo, con l’allegria dei suoi vestiti rosso-verdi, o giallo-bleu, con l’aspetto scanzonato delle sue scarpe alla polacca, con lo splendore delle sue miniature, con l’incendio azzurro delle sue vetrate ed il biancore irritante dei suoi monasteri contemplativi. Qualificare di «oscuro» quel carosello permanente di colori e di stravaganze impennacchiate era un po’ esagerato, ma con voi la sottigliezza non paga. Generazioni di citrulli maturati nelle vo-stre scuole hanno rappresentato il Medioevo come una galleria brulicante di pipistrelli, visto che io non insegnavo loro che era invece un mattino di festa pieno d’un esecrabile sole.
Un secondo tratto di genio – non sono avaro di questo tipo di manifestazioni – è stato quello di parlare di «secolo» o di «filo-sofia dei lumi» nel momento preciso in cui è venuto a mancare il fuoco dello spirito, allorché cioè non brillava più nei vostri sa-lotti che quella specie di fosforescenza tra l’effimero ed il sulfu-reo che voi chiamate spiritualità. Il mio XVIII secolo è stato un grosso successo. Voltaire era considerato una fiaccola; chiunque poteva trarre dalla sua lettura la gradevole sensazione di essere intelligentissimo, e non ci vuole di più per farsi una clientela. L’uomo del Medioevo, che aveva inventato le leggi della cavalle-ria e quelle dell’amor cortese, passava per un compagnone un po’ grossolano; il marchese de Sade, le sue catene, le sue ossessioni, il suo rimbambimento verboso e i suoi infami allettamenti sessuali, per modello di raffinatezza. Queste cantonate mi piacciono mol-tissimo. Niente mi diverte come il vedervi prendere Napoleone per un gran sentimentale.
Il mio XX secolo è ancora più bello. Certo, voi non credete quasi più in me ed io sopravvivo nel vostro vocabolario solo gra-zie a qualche espressione stereotipa, la «bellezza del diavolo», una «creatura infernale», «tirare il diavolo per la coda» il che vuol dire riconoscere come in certe miserevoli situazioni voi spe-rate solo più in me, dal momento che la coda che mi attribuite funziona da segnale d’allarme; e vi servite infine ancora corren-temente dell’espressione «astuzia diabolica», nella quale traspare l’ammirazione che avete per me.
Questi omaggi, tuttavia, non rivestono più la forma liturgica, se si eccettuano pochi occultisti che pensano, nella loro ingenuità, mi si possa far accorrere ad un fischio, come un lacchè, quasi i puri spiriti quali siamo non si potessero esprimere diversamente che facendo ballare i tavolini a tre zampe o spostando oggetti nella stanza. A parte questo sparuto gruppetto di adepti, che mi venerano insopportabilmente, voi sprofondate nell’irreligiosità, e ci sono giorni nei quali mi chiedo se non dovrei restituirvi un po’ di fede cristiana, al fine di far meglio risaltare i miei servigi; dopo tutto, ho bisogno di considerazione come chiunque altro. Tutta-via, la vostra obbedienza mi consola delle vostre manchevolezze. Voi credete di fare la vostra volontà, e fate invece la mia, con precisione e celerità. Ho appena il tempo di formulare un deside-rio, che voi subito vi date da fare per metterlo in esecuzione. E correte tanto veloci sulla strada dei miei comandi, che talvolta mi sento un po’ superato.
Ma non abbiate paura: vi riacciufferò. Ardentemente vostro
Il Diavolo
Tratto da: “Il diavolo forse” con le 35 prove che il diavolo esiste – André Frossard.
Redazione Papaboys (Fonte www.preghiereagesuemaria.it)