C’è un fil rouge che lega tutte le testimonianze che abbiamo raccolto su Giovanni Paolo II: l’incredibile profondità della sua preghiera ed il fortissimo legame spirituale con Dio. Wojtyla era capace di estraniarsi dal mondo esterno e raccogliersi in preghiera in qualsiasi momento ed in qualsiasi luogo. I suoi collaboratori più vicini raccontano che spesso in viaggio faceva fermare l’automobile, talvolta anche l’elicottero, per la recita del S. Rosario o della Liturgia delle ore. Stanislaw Dziwisz, l’attuale arcivescovo di Cracovia, e per molti anni segretario di Giovanni Paolo II, ricorda così il suo primo incontro con Karol Wojtyla: «avvenne quando ero seminarista, studente del primo anno. Lui era professore, ancora non vescovo, e insegnava introduzione alla filosofia e alla teologia. Abbiamo visto un uomo di Dio: questa immagine di uomo unito al Signore rimane nella mia memoria per sempre». In concreto, Wojtyla «quando finiva le lezioni o all’intervallo, stava sempre davanti al Signore nella Cappella e noi ragazzi lo spiavamo, volevamo vedere come pregava. L’impressione era che per lui non esistesse niente se non il Signore con cui parlava, era profondamente concentrato in preghiera. Quando poi tornava in aula, appariva cambiato, molto tranquillo: sembrava tornato da un incontro per lui molto impegnativo».
Questo profondo raccoglimento però, almeno in un paio di occasioni, creò anche qualche simpatica difficoltà a Karol Wojtyla. Padre Daniel Ange, nel suo libro “i fioretti di Papa Giovanni Paolo II” racconta che proprio per essersi attardato in preghiera, Wojtyla rischiò addirittura di perdere il Conclave che poi lo elesse come pontefice: “nel giorno del suo arrivo a Roma, nell’ottobre 1978, il Cardinale Karol Wojtyla, prima di entrare in Conclave, fece una passeggiata al Santuario della Mentorella, a quaranta chilometri dalla capitale, ai piedi del Guadagnolo, un monte alto 1218 metri che spesso scalava al mattino. Poco mancò che questa passeggiata gli precludesse l’entrata perchè, essendosi attardato prima in preghiera e poi con alcuni pastori del posto, non si rese conto che il tempo passava. D’un tratto il sole tramontò e l’ultimo bus gli passò davanti.”Pare che sia dovuto rientrare a Roma in autostop per arrivare appena in tempo per il Conclave, dove si presentò per ultimo… una volta chiuse le porte, l’ingresso non è più consentito a nessuno, neppure ai cardinali. Nel 2002, invece, la solenne Messa di Pasqua iniziò tardi (20 minuti) in fretta e furia perché nessuno aveva ricordato a Wojtyla la sera prima di spostare l’orologio un’ora avanti, per il passaggio all’ora legale. Lui dopo colazione si ritirò come al solito in preghiera in cappella, dove tutti sapevano che di norma non andava disturbato né interrotto. E nel dubbio su che fare, racconta l’ex “secondo” segretario Mieczyslaw Mokrzycki, passò svariato tempo: “quando lui pregava era così immerso nel profondo della comunione con Dio che pareva scordarsi del mondo esterno”. La preghiera, ovvero l’intensità con cui Giovanni Paolo II lo faceva, è proprio quel che ispira le pagine più toccanti. Per l’allora cardinale Ratzinger “da qui veniva la sua letizia, in mezzo alle grandi fatiche che doveva sostenere, e il coraggio con cui assolse il suo compito in un tempo veramente difficile”. La preghiera era “il centro della sua vita, solo apparentemente frenetica”, riferisce lo “storico” segretario ora card. Stanislaw Dziwisz, ricordando che già a Cracovia, da arcivescovo, fece mettere in cappella uno scrittoio, per scrivere là, a contatto con Gesù eucaristico, discorsi, articoli e libri. E pure tutti i quattro “vice”
di Dziwisz furono debitamente istruiti da lui: “Non c’è nessuna urgenza per disturbare il Santo Padre quando prega!”, ricorda mons. Emery Kabongo, che fu secondo dei quattro.Giovanni Paolo II però non si faceva intimorire da questi piccoli contrattempi, e neppure da difficoltà più gravi. Arturo Mari, il “fotografo dei Papi”, per 50 anni servizio dei Pontefici come fotografo dell’Osservatore Romano, racconta un episodio avvenuto in volo: “Solo in pochi sanno questa cosa: eravamo sull’aereo diretti in Senegal. Appena fuori dall’Italia, sul Mediterraneo entrammo in una nuvola di ghiaccio e il nostro aereo non aveva un sistema per sbrinare le ali ghiacciate. Da 12.000 metri di quota ci ritrovammo di colpo a 1.500 metri. Noi eravamo tutti molto agitati, l’aereo sembrava precipitare. Lui invece era tranquillo, stava leggendo il breviario, seduto al suo posto. Appena l’aereo è risalito lui ha guardato fuori dal finestrino, ha annuito e come se non fosse successo nulla, sorridendo ci disse: “Problemi?”. Mi viene in mente un altro aneddoto legato al volo, raccontato da Joaquín Navarro-Valls, direttore della Sala Stampa della Santa Sede dal 1984 al 2006, durante un’intervista rilasciata al quotidiano Repubblica: “Giovanni Paolo II voleva sempre che si viaggiasse di notte nei voli intercontinentali, per arrivare al mattino sul posto e avere così davanti a sé tutta una giornata di lavoro. Nel suo ultimo viaggio in Messico, e aveva ottant’anni, l’Alitalia gli aveva preparato un lettino dietro una tenda. Noi del seguito – laici, cardinali, monsignori – cercavamo di dormire almeno un po’, raggomitolandoci nei sedili. Quando atterrammo, l’incaricato della compagnia si avvicinò e mi disse: noi avevamo preparato il lettino per il Papa, ma abbiamo visto che è intatto. Era troppo stretto, era scomodo? Non si preoccupi, lo rassicurai, è stato sveglio tutto il viaggio per prepararsi. Tredici ore di viaggio leggendo, studiando, pregando”.
Vorrei chiudere questo articolo con una “fotografia raccontata” proprio da Arturo Mari, che in un’intervista rilasciata di recente alla Radio Vaticana, ha confidato le sue emozioni ed è ritornato ai momenti più belli vissuti con Giovanni Paolo II: “La fotografia che ho fatto l’ultimo Venerdì Santo nella cappella del Santo Padre, quando non ha potuto recarsi alla Via Crucis, al Colosseo. Alla quattordicesima stazione, il Santo Padre ha chiesto la croce al suo segretario don Stanislao Dziwisz: non mi ha colto alla sprovvista, perché conoscevo troppo bene quest’uomo! Prende questa croce, la appoggia alla sua fronte, bacia il Cristo e la appoggia sul suo cuore. Per me questi sono 27 anni – una vita! – dedicata alla Chiesa, una vita dedicata al mistero della Croce. A questa Croce lui in ogni momento si è appoggiato per chiedere aiuto; con questa Croce lui ha girato il mondo, facendosi sempre forza con essa, con quel bacio, con la fedeltà a Dio, alla Chiesa, alla sua missione. Le unghie delle sue dita erano rosse per la forza con cui stringeva quella Croce; e con quelle mani lui ha scritto Encicliche, ha benedetto milioni di persone, ha accarezzato bambini, malati, infermi, ha dato sostegno a chiunque potesse dare aiuto … Quante lettere ha scritto, quante cose ha fatto per noi, con quelle mani!”.
Di Alessandro Ginotta
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