Quando Leandro Carboncini arriva a Dalmine, nella seconda metà degli Anni Cinquanta, porta nella sua valigia di cartone una storia grande, e tutta da raccontare. Un passato in cui trovano posto quelle sue origini da toscano schietto, e quell’infanzia atipica, vissuta tra le mura di un albergo di Viareggio di cui i suoi genitori erano custodi.
La malattia e la fede. In quella valigia dei ricordi Leandro conserva però con gelosia anche un legame indissolubile con Padre Pio, l’uomo che segnerà la sua vita per sempre. «Avevo 25 anni quando, durante una delle stagioni in albergo, mi presi una broncopolmonite terribile», racconta adesso Leandro, mentre seduto in poltrona si gode la tranquillità e il riposo che spettano a un uomo di 93 anni. «Scoprimmo che si trattava di un’infezione polmonare. I medici sperimentarono su di me la streptomicina, ma i risultati tardavano a farsi vedere».
E in quello spazio lasciato vuoto dalla scienza, ha modo di infiltrarsi la speranza data dalla fede. Un’amica di famiglia incrocia la madre di Leandro, in chiesa. Le pone tra le mani il libro di Padre Pio, di cui, fino allora, il giovane toscano non ha ancora sentito parlare. «Io ne fui particolarmente attratto. Quando il mio male è peggiorato, ho sentito il bisogno di appoggiarmici. Finché un giorno quel bisogno si è trasformato nell’impulso di scrivere a quell’uomo. Alla lettera risposero i suoi collaboratori, assicurandomi che avrebbe pregato per me». La corrispondenza continua, ma le notizie diventano positive. Infatti, una notte, poco dopo la ricezione di quel biglietto, «sentii una mano accarezzarmi il volto. Mi svegliai d’improvviso e avvertii un intenso profumo di rose. Chiamai mia madre, che accorse, ma non percepì quello stesso profumo. Lì capii che sarei finalmente guarito. Una volta rimessomi in sesto, gli ho scritto nuovamente per ringraziarlo e per promettergli che prima o poi sarei andato a trovarlo».
L’incontro con Padre Pio. È il 1950 quando il giovane toscano mantiene la sua promessa. In ottobre si reca a San Giovanni Rotondo e, con trepidazione, decide di conoscerlo: «L’unico modo per parlare con Padre Pio era la confessione. Solo che, prima di partire, mi ero già confessato a Viareggio, quindi una volta sul posto, preparai altri tre peccati veniali per l’occasione. Quel che più mi colpì è che li anticipò, seppe ripetermeli addirittura nell’ordine in cui avevo programmato di enunciarli, ancora prima che io potessi aprire bocca». Da quel momento, il pellegrinaggio si trasforma in una costante nella vita di Leandro. Qualche volta si fa tuttavia accompagnare da amicizie che il frate di Pietrelcina non apprezza: «Ricordo di aver portato con me un amico, una volta, ma Padre Pio l’ha mandato via subito, l’ha guardato in faccia e ha detto che non era ancora pronto a compiere quel passo. Questo perché era un religioso in grado di leggere il volto e il cuore della gente».
Il matrimonio e la devozione. La vita di Carboncini, da quel momento, è costellata da passi fatti nella miglior direzione possibile. Ed è lungo quel cammino sviluppatosi sotto i consigli e le benedizioni di Padre Pio che, nella seconda metà degli Anni Cinquanta, approda a Dalmine, dove diventa impiegato d’azienda e dove, soprattutto, conosce Valeria, che diventerà sua moglie nel 1959: «Ci siamo conosciuti a una fiera di beneficenza, lei era con sua sorella. L’interesse è cresciuto piano piano, finché non abbiamo deciso di passare insieme il resto della vita». Una vita che perdura ancora oggi, mentre entrambi raccontano la propria versione dei dettagli di quell’amore che dura da più di 50 anni. La devozione verso il frate di Pietralcina, tuttavia, non affievolisce sotto il peso degli impegni quotidiani, anzi: dopo il matrimonio, insieme a Marisa Calvi e suo marito Aldo, Leandro costituisce il Gruppo di preghiera intitolato al Padre.
La morte di Padre Pio. Quando poi, il 23 settembre del ‘68, giunge la notizia della sua morte, Leandro non ha dubbi su ciò che fosse giusto fare: «Eravamo a Viareggio, in vacanza. La notizia mi arrivò attraversò la radio, e ne fui molto colpito, anche se sapevo che da tempo era in condizioni critiche. Decisi che sarei dovuto andare a San Giovanni Rotondo, subito». Così, lascia la famiglia a Dalmine, mentre spontaneamente viene organizzato con altri fedeli un grande viaggio comune diretto al sud. «Abbiamo organizzato diverse macchinate, e l’atmosfera era densa di tristezza, ma bellissima. Ci siamo uniti a un milione di altre persone giunte per salutarlo un’ultima volta. È stato un momento indimenticabile. Io penso a lui tutti i giorni, anche perché come vedi, qui a casa la sua immagine è ovunque. Ha segnato tutta la mia vita, così come quella della mia famiglia».
Fonte www.bergamopost.it