C’era una volta l’ecclesialese, in pratica il politichese della Chiesa. «Ateo»? Meglio «non credente». «Amore per il prossimo»? Va bene, ma vuoi mettere come suona meglio «esercizio di prossimità»? Per non parlare poi delle «ricadute pastorali», che fino a qualche tempo fa erano all’ultimo grido. Sì, ma grido di insofferenza di tanta gente al cui orecchio un simile vocabolario suonava astruso come le parole di una lingua straniera. C’era una volta. Oggi, grazie al cielo – anzi grazie a Papa Francesco – l’ecclesialese di fatto non c’è più. Mandato in soffitta dal modo di comunicare del primo Papa latinoamericano.
Perciò appare quanto mai opportuna la scelta dell’editrice Ave (emanazione diretta dell’Azione Cattolica) di dar vita – in occasione dell’80° anniversario di fondazione – a una collana di agili volumetti, intitolata Le parole di Francesco.
Finora ne sono usciti quattro: Misericordia, Poveri, Pastori e Popolo). Quattro delle parole più presenti nel suo magistero. Ma altre ne seguiranno. Perché certe parole sono altrettante chiavi di volta di un Pontificato che anche grazie al parlar semplice (a cominciare dall’iniziale «buonasera») ha fatto breccia nel cuore della gente.
La rivoluzione linguistica di Bergoglio, infatti, si basa su tre principi: rifiuto assoluto dell’ecclesialese. Adozione di uno stile stringato, diretto, quasi colloquiale. Uso di espressioni che richiamano alla mente immagini ben precise e familiari. In alcuni casi, poi, quando le parole di uso comune gli stanno strette, Francesco crea dei veri e propri neologismi, traendoli dal lunfardo, il gergo di Buenos Aires (ad esempio il verbo «primerear») o dalla della lingua popolare imparata dai nonni italiani («la corruzione spuzza»).
La parte più rilevante e innovativa di questa rivoluzione è comunque il suo parlare per metafore, che hanno un ancoraggio preciso nella vita di tutti i giorni. In questo la sua comunicazione, specie nelle omelie di Santa Marta, è davvero molto vicina allo stile delle parabole evangeliche. Si prenda ad esempio il famoso brano del Vangelo letto nella IV Domenica di Pasqua: «Io sono il buon pastore». Quando Gesù dice che «le pecore lo seguono, perché riconoscono la sua voce», fa riferimento a un’usanza dei pastori del suo tempo di mettere alla sera gli animali in recinti comuni e di richiamarli la mattina seguente usando la voce. Un’immagine che tutti potevano immediatamente comprendere.
Così quando il Papa si è presentato, il giorno dopo l’elezione, dicendo che «senza la croce la Chiesa è solo un’Ong pietosa», l’immagine ha immediatamente catturato l’attenzione. E lo stesso può dirsi per l’altra famosa metafora riferita ai preti, i quali sono chiamati ad essere, appunto, «pastori con l’odore delle pecore» (omelia della Messa crismale, giovedì santo del 2013).
Interattività: infine il Papa non si accontenta di parlare, spesso intesse un dialogo con l’assemblea. E questa interattività è a sua volta di due tipi: interloquire con la gente, sollecitandola a rispondere in coro; entrare in sintonia profonda col cuore di una determinata assemblea in un determinato momento, lasciando se necessario da parte i discorsi scritti e parlando a braccio. Un’empatia che ha avuto il suo apice ad esempio nella tappa tra gli alluvionati di Tacloban e nel “dialogo delle lacrime” con la bambina di Manila, durante il recente viaggio nelle Filippine.
«Oralità, gesti e interattività conferiscono al magistero di Francesco – sottolinea padre Spadaro – una connotazione radicalmente anti-ideologica». Come dimostrano ad esempio le sue recenti prese di posizione contro l’ideologia del nostro tempo: la teoria del gender.
Nella Evangelii Gaudium il Papa ha scritto che «la realtà è più importante dell’idea». Con il suo modo di comunicare egli ne dà dimostrazione ogni giorno. E anche così disegna i contorni di una Chiesa in uscita, capace di abbandonare il linguaggio dei dotti per parlare a tutti.
di Mimmo Muolo per Avvenire