Categorie: Pax et Justitia

“L’educazione alla pace dipende anche dal nostro stile di vita”

Monsignor Giovanni Ricchiuti, arcivescovo di Altamura-Gravina-Acquaviva delle fonti, è il neo presidente di Pax Christi: “Penso che oggi bisogna tornare a parlare del sogno della pace e dell’educazione alla pace, che passa attraverso uno stile di vita, una scelta di atteggiamenti di riconoscimento dell’altro, comportamenti dei singoli e delle comunità, anche all’interno della Chiesa”.

La tradizionale Marcia della pace del 31 dicembre si svolgerà quest’anno a Vicenza, sul tema del Messaggio del Papa “Non più schiavi ma fratelli”. All’iniziativa, giunta alla sua 47ma edizione e organizzata da Pax Christi, Commissione episcopale problemi sociali e lavoro, Caritas italiana e Azione Cattolica, prenderà parte il neo presidente di Pax Christi monsignor Giovanni Ricchiuti, arcivescovo di Altamura-Gravina-Acquaviva delle fonti, che aprirà anche il convegno nazionale di Pax Christi (29-31 dicembre, sempre a Vicenza). La Marcia partirà dal piazzale della Vittoria di Monte Berico e percorrerà in quattro tappe alcuni luoghi simbolici della città. Farà memoria della prima guerra mondiale, dei conflitti ancora in corso, delle persecuzioni dei cristiani, dei poveri.

La sua prima Marcia per la pace come presidente di Pax Christi. Quali auspici?


“Sono in sintonia con il movimento della pace da tanto tempo. Ho già partecipato ad altre marce in passato. Quest’anno la Marcia vuole essere ancora un’invocazione alla pace e alla riconciliazione tra i popoli, che non può non passare attraverso una denuncia della corsa agli armamenti o al traffico delle armi”.

Alcuni pensano che le marce siano retorica e non servano. Perché voi ci tenete?
“Il problema non si pone più nei termini di un pacifismo più o meno esasperato, forse troppo in avanti rispetto alle possibilità della gente o del mondo. Penso che oggi bisogna tornare a parlare del sogno della pace e dell’educazione alla pace, che passa attraverso uno stile di vita, una scelta di atteggiamenti di riconoscimento dell’altro, comportamenti dei singoli e delle comunità, anche all’interno della Chiesa”.

Lei ha conosciuto personalmente don Tonino Bello, cosa le ha lasciato?
“Sono entrato come rettore al seminario di Molfetta sei mesi dopo la sua morte. Ma prima ero parroco a Bisceglie, una città a 10 km da Molfetta, quindi ho avuto molte volte la possibilità d’incontrarlo e di ascoltarlo. Come vescovo ha dato segnali forti, soprattutto per come ha interpretato il suo ministero episcopale. A quei tempi, circa 25 anni fa, ha compiuto gesti che rompevano schemi, come l’apertura dell’episcopio agli sfrattati e ai bisognosi. Si è dedicato ai migranti sfruttati nella zona, agli albanesi arrivati con le navi. Ricordo il suo grande amore per la pace, per i più poveri e gli ultimi. Era innamorato di una visione di Chiesa attenta al sogno della pace e vicina agli uomini. Tutti ricordano il suo viaggio coraggioso a Sarajevo con 500 giovani ‘pacifisti’ durante la guerra, quando già era ammalato”.

Ora raccoglie la sua eredità come presidente di Pax Christi, con quali propositi?
“Raccolgo l’eredità di don Tonino, di monsignor Luigi Bettazzi, che ha partecipato a tutte le 47 marce della pace, e di tutti gli altri vescovi che si sono succeduti alla presidenza. Credo che il compito principale del movimento sia fare da seme, da provocazione, e non rassegnarsi al difficile cammino della pace, della concordia e della riconciliazione tra i popoli, al sogno di una difesa non armata… Sono prospettive difficilissime da portare nel mondo di oggi ma c’è la necessità di ritornare a parlare il linguaggio della riconciliazione, eliminando i conflitti e la polemica anche all’interno delle nostre comunità. Sono prospettive per cui vale la pena continuare ancora a impegnarsi”.

Il tema di quest’anno è la schiavitù, la tratta. Quanto questo fenomeno drammatico coinvolge anche l’Italia?
“L’Italia purtroppo è coinvolta nel fenomeno della schiavitù, edulcorata da tante altre maschere. Sono stato vescovo ad Acerenza, in Basilicata. A 20 km c’è un paese, Passo San Gervasio, dove ogni estate si sfruttano giovani lavoratori africani nella raccolta dei pomodori. Poi c’è la riduzione in schiavitù delle giovani donne costrette a prostituirsi sulle nostre strade, ma anche altre forme di schiavitù più camuffate. Quando si dice a un giovane: o ti accontenti di lavorare a queste condizioni o te ne vai. Questo è un ricatto, tiene in scacco le persone. Anche la corruzione e la criminalità organizzata, chiedendo alle persone il silenzio e l’omertà, sono strategie che mirano ad asservire a logiche di violenza, delinquenza, spaccio di droga. C’è tanto su cui lavorare, il messaggio di Papa Francesco è un colpo d’ala. Mettendo l’attenzione sul valore della fraternità il Papa ha colto nel segno, sa qual è la radice della schiavitù: non ritenere che l’altro sia tuo fratello, ma metterlo sotto i tuoi piedi”.

A questo proposito Papa Francesco e i leader delle religioni hanno compiuto un gesto coraggioso: impegnarsi per abolire la schiavitù entro il 2020. Cosa ne pensa?
“Finalmente le religioni si sono messe intorno a un tavolo ideale per sottoscrivere un documento forte come quello per l’abolizione della schiavitù. In questo modo la religione trova davvero la sua parte più autentica. La religione non può che promuovere la dignità della persona umana. In questo senso è triste assistere, ancora oggi, a quando Dio viene tirato in ballo in decapitazioni, uccisioni e massacri. Questo non può accadere”.

Fonte. Agenzia SIR

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