“Non vi farò il regalo di odiarvi”, dice, e prosegue spiegando come la sposa l’accompagnerà tutti i giorni della loro vita per ritrovarsi infine in quel paradiso di anime libere dove gli attentatori non entreranno mai. “Se questo Dio per il quale ciecamente uccidete ci ha fatti a sua immagine, ogni pallottola nel corpo di mia moglie sarà stata una ferita nel suo cuore. Perciò non vi farò il regalo di odiarvi. Sarebbe cedere alla stessa ignoranza che ha fatto di voi quello che siete.”
Insomma poche parole ma con le mani che preparano una merenda. Proprio l’atteggiamento che attraversa la schiena del mondo delle persone libere e ferite.
Mentre la leggevo, ho pensato che questa lettera è la risposta a tutti quelli che almeno una volta hanno detto che le parole non servono.
Forse non servono più le parole “parlate”, forse i discorsi ci hanno stancato. Ma le parole del cuore, vere, scritte in una lettera come questa, no, non stancano mai. Anzi danno riposo. Niente dolori rimossi ma le cose chiamate con il loro nome. Affrontate, vissute.
Sono parole per chi pensa che il dolore fiacchi gli animi e che la paura annienti le forze. È l’odio che fiacca e annienta, anche se sembra che vinca. Lo scrive a metà: “Insieme siamo più forti di tutte le armate del mondo”. Noi che perdoniamo siamo più forti di chi ci odia.
“Noi”, sono lui e il figlio: l’unione fa la forza e l’amore unisce. Vince sempre, l’amore, anche quando perde.
Per chi pensa che Parigi è l’inizio della fine, questa lettera serve a scoprire che invece si può sempre riiniziare: per i figli, per noi stessi ma anche per chi è morto innocente. Si può e si deve fare. Scrivere, pregare, tacere.
E poi andare a preparare una merenda. Perché poi, per iniziare a fare, cosa bisogna iniziare a fare? Cosa fare? Cosa posso fare? La merenda.
Di Don Mauro Leonardi
Articolo tratto da IlSussidiario.net
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