Un imam marocchino che indossa, sopra il classico caffetano arabo, un saio francescano e tiene in mano il Vangelo. Un frate francescano siciliano che infila il fez e l’abito bianco tradizionale dell’Islam sopra la veste marrone, imbracciando il Corano. Accanto un cardinale,
Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento, che elargisce sorrisi bonari, canta e fa festa con il popolo e, infine, abbraccia calorosamente l’imam. Una scena che a vederla con i propri occhi ha dell’incredibile. Eppure è vera, nel cuore della Sicilia di Pirandello e di Camilleri, a 13 km da Agrigento: siamo a Favara, piccola cittadina di 33mila abitanti, una realtà “difficile”, per non dire altro. In questa terra la parola mafia quasi non si pronuncia ma si conosce molto bene. Perfino le suore di Madre Teresa di Calcutta svolgono qui un servizio nascosto tra gli ultimi degli ultimi, i cosiddetti “linticchieddi” (“piccole lenticchie”, chiamati così per le lentiggini e i capelli rossi), gente poverissima di mezzi e di cultura, forse discendenti di una etnia rom venuta a Favara nell’Ottocento (ma le ipotesi sono diverse), emarginati e nuovi paria di questa società. Qui passano anche i migranti africani venuti dal mare e a volte mettono radici e si fermano. E proprio qui è accaduto un piccolo miracolo di dialogo interreligioso di base. Dal convento dei Frati minori di Favara è partito un grido di dialogo e speranza, con una Marcia per la pace tra musulmani e cristiani e migliaia di partecipanti.
“No” alla paura dell’altro. Molti migranti dell’Africa sub-sahariana sono arrivati da Agrigento con i pullman. C’erano centinaia di marocchini residenti in zona, e i senegalesi che sono riusciti ad aprire un ristorante in centro con l’aiuto dei frati. E poi loro, gli abitanti di Favara, “linticchieddi” compresi. Hanno marciato dalle quattro del pomeriggio sotto il vento e la pioggia, tra nuvole nere, sorpresi ogni tanto da arcobaleni improvvisi. Arrivati al convento, da cui si gode una spettacolare vista della cittadina con squarci di barocco siciliano e favela brasiliana, si sono riuniti tutti in un grande salone, straripante di gente, di umanità schietta, genuina. Musiche ebraiche, simboli dell’Islam e del cristianesimo, testimonianze, cori di studenti delle scuole, autorità in prima fila e tanto entusiasmo per dire “no” alla paura dell’altro, al terrore propagandato dai gruppi estremisti come l’Isis che praticano la violenza bestemmiando il nome di Dio e danneggiando l’intera comunità musulmana, che vuole solo vivere in pace.
“Non avere paura di vivere insieme”. Ospite d’onore il neo-cardinale Montenegro, “don Franco” per tutti, come non si stanca mai di ripetere. “Non dobbiamo avere paura di vivere gli uni accanto agli altri”, ha detto, introducendo l’incontro con una preghiera cristiana. Perché lui sa bene che l’ecumenismo e il dialogo, a livello di base, “funzionano meglio e spesso sono vita vissuta”, anche se nascosta o sottaciuta. Questa volta i francescani, insieme alla comunità marocchina locale, hanno voluto fare un gesto eclatante, dopo i terribili fatti di cronaca, Charlie Hebdo e i barbarici gesti e le minacce dello Stato islamico. Anche l’imam Majoub Rezlane, della nuova moschea di Agrigento-Favara, dal palco, ha recitato la sua preghiera in arabo chiedendo a Dio di “allontanare le guerre, il terrorismo, i criminali”, ricordando che “l’Islam è una religione di pace, amore, dialogo”. Altri rappresentanti della comunità islamica hanno raccontato quanto si sentano “musulmani ma anche italiani”, esprimendo la loro paura e preoccupazione. Una ragazza marocchina, parlando con marcato accento siciliano, ha ribadito: “I terroristi dell’Isis non sono dei veri musulmani”. Un altro giovane della comunità maghrebina, citando a più riprese il Corano, ha sottolineato che l’Islam vuole la pace soprattutto tra “la gente del Libro”: ebrei, cristiani, musulmani. E ha lanciato una serie di appelli alla classe dirigente, “per promuovere l’integrazione, la legalità e la convivenza civile”, ai religiosi per “trovare una piattaforma comune” e agli stessi immigrati che vivono in Italia: “Abbiamo il dovere di sacrificare il nostro sangue per il nostro Paese di accoglienza”.
Un esempio di convivenza. “Più andavo avanti nell’organizzazione di questa marcia, molto contestata da chi non capisce il vero senso del Vangelo e del dialogo più pensavo: sono un irresponsabile – ha confidato fra
Giuseppe Maggiore -. Invece aver visto la sala così piena mi ha davvero emozionato. Il nostro compito, come faceva san Francesco è amare senza limiti e senza cercare la reciprocità, smorzando gli allarmismi che fomentano la paura”. Fra Giuseppe, che ha alla spalle una esperienza in Marocco, si ritrova ora, insieme a due altri frati missionari, a rivivere la stessa missione nella sua terra. Il convento, per volontà dell’arcivescovo e slancio appassionato di fra Giuseppe, ha aperto dal 2011 le porte ai migranti ospitandone da allora oltre 300 nella “Tenda del Padre Abramo”. La comunità è oggi un esempio di convivenza tra nazionalità e religioni diverse: si sostenta solo con le offerte dei cittadini e accoglie di volta in volta una decina di migranti, molti arrivati con le carrette del mare: dall’Afghanistan, dalla Liberia, dalla Somalia, dalla Tunisia, dalla Nigeria, dal Ciad, dal Niger, dalla Romania. Si cerca di inserirli a livello lavorativo e sociale. Si vive insieme, sotto una stesso tetto e intorno a una stessa tavola. Perché “non si può essere cristiani e indifferenti agli immigrati”. Parola di cardinale.