di Piero Di Domenicantonio per Vaticannews.va
Igor si copre gli occhi con le mani. Come si può trattenere il pianto quando si pensa ai bambini che stanno morendo sotto le bombe e a quelli ai quali la pazzia della guerra sta strappando i propri padri?
È già buio e sotto il porticato dell’ostello della Caritas alla stazione Termini entrano folate di vento gelido. Igor passa la notte qui da quando ha perso il lavoro. Se ne sta in disparte. Silenzioso. Preso dai suoi pensieri. Per lui la guerra in Ucraina non è la crisi che ci ha rovinato la festa che ci preparavamo a vivere sperando nella fine della pandemia. Quella “crudeltà” — che Papa Francesco all’Angelus di domenica scorsa ha sbattuto davanti agli occhi di tutti – lui la sente dentro. Ha un figlio lì. «Si è sposato da poco – racconta – e tre mesi fa ha avuto un bambino. La mamma e il piccolo sono riusciti ad arrivare in Polonia, ma lui non ha potuto passare la frontiera. Per ora sta bene. Ci sentiamo tutti i giorni per telefono. Ma come si può accettare tutto questo? Come si può togliere un padre a un bambino di tre mesi?».
Al momento Igor è l’unica persona di origine ucraina ospitata nell’ostello. Gli altri, nella maggior parte, sono italiani. Ma c’è anche chi è arrivato da altre terre dove la “guerra mondiale a pezzi” ha versato e continua a versare sangue innocente. Qui, in questo edificio che porta il nome di don Luigi Di Liegro, il prete dei poveri di Roma, trovano un pasto caldo e un letto per passare la notte. Un rifugio che ha l’odore di casa, dove si può abbassare la guardia e lasciarsi andare a una risata e a uno scherzo con Luca, Andrea e Michele, tre degli operatori che all’atrio registrano i nomi, misurano la temperatura, distribuiscono mascherine e coperte e ricordano che oggi è giorno di bucato. «Ma senza mai mancarsi di rispetto», tengono a dire ospiti e operatori.
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