La Chiesa e la sua complessità. Difficile da comunicare. Come se si trattasse di decrittare i geroglifici di una piramide egizia. Ma molto più interessante da capire anche perché è della vita dell’uomo, del suo destino eterno, della sua promozione integrale che si parla.
A esprimersi in questi termini, più di quarant’anni fa, era Paolo VI, ma le sue parole, dirette ai giornalisti di allora, risuonano attuali e contemporanee come non mai. Specie in tempi di “fake news”, basate proprio sull’ignoranza dei dati oggettivi. Il discorso in questione è quello che papa Montini pronunciò dinanzi ai corrispondenti della Stampa estera, il 28 febbraio 1976, nella Sala del Concistoro e che ora grazie a una paziente opera di ricostruzione – “archeologica”, sarebbe il caso di dire – condotta dal vescovo di Albano, Marcello Semeraro, con l’aiuto di padre Leonardo Sapienza, reggente della Casa Pontificia, ci viene restituito nella sua forma integrale. Quella effettivamente pronunciata, con aggiunte a braccio dello stesso Paolo VI, rispetto al testo ufficiale pubblicato negli Insegnamenti( volume XIV). Il discorso è così confluito, insieme a un agile ma approfondito commento introduttivo di Semeraro, nel libriccino Paolo VI i giornalisti e i geroglifici, a cura di padre Sapienza (Edizioni Viverein, pagine 51, euro 5).
Tutto prende le mosse dai diari di Benny Lai, uno dei primi vaticanisti, il quale alla data del 26 febbraio 1976 aveva annotato una frase riferitagli da uno dei partecipanti a quell’udienza e relativa proprio alla similitudine con i geroglifici. Solo che il 26 febbraio non risultava nessuna udienza ai giornalisti. Semeraro e Sapienza sono risaliti alla data vera e hanno chiesto alla Radio Vaticana la registrazione. Semeraro ha così potuto trascrivere il discorso integrale. Che a tanti anni di distanza appare come un vero e proprio manuale per i “vaticanisti”. Come annota, infatti, monsignor Semeraro, Paolo VI sembra prendere per mano i giornalisti e condurli alla scoperta di un universo nuovo e delle sue coordinate fondamentali. Prima di tutto la complessità della Chiesa. E l’invito a conoscerla a fondo.
«Se noi abbiamo una osservazione, un desiderio da manifestare a voi, è proprio questo: che ci conosciate nella nostra complicazione, nella nostra complessità e diciamo nella nostra ricchezza, di cui siamo eredi e custodi». Solo chi conosce questa complessità della Chiesa, continua il Papa, «fatto religioso per eccellenza, che pretende raggiungere in una nuova realtà misteriosa un rapporto vivente e soprannaturale con la Divinità; fatto storico indubbiamente singolare per (…) la sua bimillnaria durata e per la sua tormentata, ma sempre tenace esistenza; fatto umano, che una libera e spontanea, ma estremamente solida organizzazione riveste d’un volto sociale determinato: quello di Popolo di Dio (…), può comprendere come sia difficile e al tempo stesso doveroso e interessante, guardare alla Chiesa nei suoi aspetti simultaneamente complicati e molteplici».
Secondo elemento, la cancellazione della superficialità. E qui ancora una volta Paolo VI integra a braccio. «Voi siete degli osservatori – dice rivolgendosi ai giornalisti – prima di essere degli informatori. Noi sappiamo di essere spesso per voi di difficile comprensione: uno viene a Roma… crede di vedere tutto perché ha veduto la cupola di San Pietro, o ha veduto gli Svizzeri al Portone di Bronzo: “Ah questa è Roma”. C’è qualche cosa d’altro, sapete… noi temiamo perciò d’essere giudicati secondo una conoscenza superficiale, unilaterale e parziale della nostra realtà».
Infine l’affondo decisivo, il terzo elemento, una conoscenza adeguata, anzi, per usare le parole esatte del discorso «un’acuta attenzione». La stessa riservata «per le altre società e per gli altri movimenti di vita e di pensiero». Paolo VI è conscio della difficoltà. «Siamo difficili». È figlio di un giornalista, il mestiere lo conosce bene. Non di meno però richiede quella che oggi si direbbe “professionalità”. «Bisogna che ci leggiate dentro, bisogna che penetriate questo alfabeto poco conosciuto alla cultura moderna e comune», dice con un’altra integrazione a braccio. «Noi – aggiunge sorridendo (lo si percepisce chiaramente dalla registrazione) – vogliamo essere letti nel profondo, come se si leggessero dei geroglifici di una piramide – chessò io – egiziana. Se non si legge questo, non si comprende quello che significa quel monumento». E infatti, prosegue, «qualche cosa di analogo avviene per noi, se non sapete leggere ciò che noi veramente esprimiamo con i nostri segni, i nostri riti, i nostri costumi, la nostra storia e, diremo anche, con i nostri difetti, non possiamo forse farci veramente conoscere da voi».
Chiaro che dal 1976 ad oggi molti passi sono stato fatti da entrambe le parti. Dalla Chiesa per parlare un linguaggio più vicino a quello del mondo e da parte dei giornalisti per capire e far capire quel mondo apparentemente cifrato. Ma le tre regole di Paolo VI valgono ancora. E in sostanza si possono riassumere nel grande tema della verità, che ha attraversato tutta la vita e il pontificato montiniano e che monsignor Semeraro annota come un «imperativo» deontologico consegnato dal Papa anche ai giornalisti (non si nota qui un’assonanza con i peccati dell’informazione dai quali ci sta mettendo in guardia anche papa Francesco?). Tanti discorsi, tanti interventi sul tema al punto che, ricorda il vescovo, «nel volume di Indice delle materie dei primi dodici volumi di Insegnamenti la voce stampa occupa ben otto pagine ». Ed è lo stesso Semeraro a citare un passo dei Colloqui religiosi che risale al 1931. «Amerò ancora innanzitutto la verità, senza esitazioni, restrizioni, compromessi, come pura libertà e cordiale fortezza di spirito». Potrebbe essere l’incipit di ogni codice comportamentale della categoria giornalistica. Oltre che la chiave per decrittare i “geroglifici” della Chiesa.
Fonte www.avvenire.it
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